Alle 14 del pomeriggio entrò in paese una turba di facinorosi, un manipolo formato da personaggi reclutati negli Abruzzi fra più esagitati, ingordi e sanguinari.
Li comandava tale Panfilo di Giacomo, "miserabile faccendiere dell'infima plebe " - dice un testimone - che, su di un cavallo di razza, si presentava alla testa dei suoi uomini urlanti e quasi tutti ubriachi, mantenendo in pugno una bandiera bianca con lo stemma dei borboni e chiamando a se la folla con le grida di Viva Francesco II.
I paesani di Monteodorisio, nell'assistere a quella lugubre sfilata, pensarono ad una dimostrazione "politica" inscenata dai fanatici che gridavano in continuazione " Viva Francesco II ", ma ben presto si dovettero ricredere. I briganti, altri li chiamavano " reazionari", si diressero al posto di guardia, e quivi rialzò gli stemmi del Borbone, strapparono i regolamenti costituzionali, si appropriarono delle armi della cancelleria comunale; fece dire in chiesa l'Inno Ambrosiano e nominò un nuovo sindaco.
L'indomani, primo ottobre, i reazionari s'impadronirono della valigia postale, fermando altresì D. Giuseppe De Luca, guardia nazionale di Vasto, che, caduto infermo ad Atessa, veniva rinviato in patria. Poi si prepararono a respingere la pubblica forza che veniva per reprimerli.
Questa si mosse nella mattina del suddetto giorno da Dogliola, giunse nel territorio di Monteodorisio nelle ore pomeridiane, e impose, ma inutilmente, agli insorti una pacifica sottomissione.
Costoro - narra un altro testimone - " si schierarono come una siepe alla china del monte ( nel cui spianato giace il paese ) di ricontro alla strada che la forza pubblica doveva percorrere, e spararono alcuni colpi, ai quali venne risposto con una buona scarica, al rombo della quale tutta quella bordaglia spulezzò"; e così ebbe termine la commedia.
In tale scontro, rimasero uccisi tre uomini e due donne da parte degli insorti. Si eseguirono molti arresti, e fra gli arrestati vi furono anche parecchi innocenti.
Il primo paese contro cui si usò la forza fu Monteodorisio ed a riguardo una relazione della Gran Corte Crimininale di Chieti così recita a: "Nei giorni trenta settembre e primo ottobre, in cui le armi borboniche erano profligate nei piani di Capua e Santa Maria, un tal Panfilo di Giacomo, miserabile faccendiere dell'infima plebe, suscitava un sommovimentoreazionale nel paesello di Monteodorisio. Ai due pomeridiane entrava nell'abitato alla testa di una turba di villici, raccolti nella campagna, scaraventando all'aria una bandiera bianca alla cui punta dondolavano le immagini borboniane, e chiamando a sè la fola con le grida Viva Francesco II. E tosto si diede ad instaurare il caduto governo di costui, Panfilo si diresse al posto di Guardia, e quivi rialzò gli stemmi del Borbone, abbigliando i ritratti di moccichini bianchi: fece a pezzi i decreti e regolameti costituzionali; s'impadronì delle poche armi lasciate dalle guardie di servizio; s'impossessò della cancelleria comunale, e ractosi in chiesa fè solennizzare con l'Inno Ambrosiano e le sacre cerimonie il felice ritorno di Re Francesco in Napoli. La sera le campane a distesa e i falò e le luminarie accrebbero il brio della festa.
La notte la parte attiva di quei marmocchi insorti stettero in veglia a manipolare il riordinamento del vagheggiato governo. Fu invasa all'improvviso la casa del Sindaco dimesso, perché avesse esibito il Decreto con cui re Francesco avea ribassato a grana 6 14 il prezzo del sale fin da quando aveva scemato il prezzo del tabacco, e intanto si era ciò tenuto occulto per maligno fine. Il Perrozzi ebbe a sudar freddo per capacitarli che quel Decreto non era stato mai emanato e con tutta la febbre che lo incolse per la patita battisoffia, dovette seguire quei tristi nella casa comunale e quivi accettare le nuove funzioni di Sindaco, presente il Cancelliere, e dopo la rivista censoria de' principali cespiti della rendita. Fu ordinato ancora il disarmo de' proprietari civili; fu ingiunto a tutti di armarsi, e fu vietato ai naturali di uscire dal Comune, sì per impedire la che la notizia arrivasse al capoluogo, e sì perché tutti dovevano concorrere alla grad'opera del ripristinato governo.
A questo medesimo intento s'impadronirono nel 1 ottobre della valigia postale, e fermarono D. Giuseppe De Luca Guardia nazionale di Vasto, che caduto infermo in Atessa, era rimandato in patria.
E in mezzo a tanta ressa ed affaccendamento di cose, i detti ribelli non tralasciavano di armarsi fino ai denti di spiedi e di tutti gli'istrumenti rurali e maneschi, oltre ad una buona diecina di schioppi; risoluti ed ordinati a voler impedire l'ingresso della forza pubblica.
La quale infatti, istruita della inserruzzione, moveva da Dogliola la mattina del detto dì 1° ottobre, ed alle prime ore pomeridiane appariva nei tenimenti di Monteodorisio. Furono mandati dal Sottogovernatore due messaggi di concordia e pacifica sottomissione.
Respinti, fu giocoforza spingersi in avanti. Gli insorti schierarono come una siepe alla china del monte (sul cui spianato giaceva il paese) di riscontro alla strada che la forza pubblica doveva percorrere. All'appressarsi di questa furono gittati dai ribelli alcuni colpi, e fu loro risposto con una buona scarica; al rombo della quale tutta quella bordaglia spulezzò; e così ebbe termine la commedia (sic).
In tale scontro restarono uccisi tre uomini, 2 femmine, da parte degli insorti. Entrata la forza pubblica nell'abitato procedè all'arresto di quanti individui trovò nelle strade e sugli usci delle loro case, e continuò a fare los tesso nei giorni susseguenti.
Ciò diede alla giustizia impaccio non lieve, nel raccolgiere la istruzione; perocchè si vide costretta non pure a liquidare i veri colpevoli, ma a chiarire ancora gli innocenti, ingiustamente tradotti in carcere. Così con tre successive deliberazione della Corte, fu renduto alla libertà un mezzo centinaio di detenuti, ed il numero de' giudicaili si è ridotto a 57, compresi i latitanti".
I primi fermenti della sommossa si erano manifestati a Monteodorisio fin dal venerdì precedente, giorno 28 settembre. Da parte di alcuni cittadini maggiormente responsabili si era cercato, con un certo successo, di tenere sotto controllo la situazione per cui il sabato 29 e la mattina della domenica 30 erano passati tranquilli.
La sommossa scoppiò nel primo pomeriggio del 30 e ad essa parteciparono circa cinque-seicento persone.
Vista la situazione compromesa ormai in modo irrimediabile, il giorno 30 il supplente Comunale Giuseppe Suriani dava notizia della sollevzione al Giudice regio di Vasto, chiedendo aiuti.
Per lo stesso motivo il sergente Raffaele Scardpane si recava personalmente a Vasto dal capitano Beniamino Majo che, in assenza del Ciccarone, comandava la Guardia Nazionale. Sprovvisto di uomini, a causa della contemporanea duplice spedizione delle Guardie al seguito del Ciccarone e del Sottoindente Sigismondi, il Majo inviava lo Scardapane da quest'ultimo, a Dogliola.
All'avvicinarsi della Guardia Nazionale, che forte di circa 250 uomini al comando del Sigismondi avanzava dalla strada di Cupello, alcuni cittadini di Monteodorisio cercarono di persuadere i rivoltosi a dileguarsi, ma i capi di questi affermarono che erano pronti a battersi senza mai arrendersi a meno che la forza pubblica disponesse le armi ed inneggisse a Francesco II.
Disponendosi ad affrontare la Gardia Nazionale i rivoltosi trascinarono i galantuomini fuori delle loro case e li misero innanzi alle loro file. Nello scontro rimasero uccisi Francesco di Giacomo fu Antonio di anni 36, MArcellino COlameo di Carmine di anni 28, Paolo Pietropaolo e due donne: Anna Di Giacomo di Michele di anni 35 e Filoena Turco di Antonio di anni 25, tutti contadini.
I feriti fra i rivoltosi furono sette o otto mentre della Guardia solo tre.
I capi della rivolta Panfilo di Giacomo, il figlio Marcellino, Marcellino Pietropaolo, il figlio Antonio e Raffaele Colameo si davano alla campagna. I due Di Giacomo con il Colameo passavano invece a Gissi che era in rivolta e quindi a Guilmi ove animarono gli abitanti alla rivolta. La Guardia Nazionale del Distretto riuscì a catturarli, insieme con gli altri latitanti, solo dopo diverse settimane di appostamenti ed agguati.
Dei 57 imputati rimanevano incriminati solo 22 che però, in data 31 ottobre 1861 con sentenza della Gran Corte Criminale di Chieti, venivano tutti scagionati dal reato di attentato e cospirazione per distruggere e cambiare il Governo e di rivolta perché mancava l'elemeto di prova sia del progetto criminoso sia del concerto dei mezzi tendenti alla esecuzione d'un tal reato.
Venivano però dichiarati colpevoli di voci e di fatti pubblici atti a spargere il malcontento e lo sprezzo contro il Governo. Reato che venne però assolto in seguito alla Sovrana indulgenza del 17 febbraio 1861 per cui dei 22 incriminati furono condannati solo 7, con imputazione di resistenza alla forza pubblica.
La pena inflitta a tutti e sette fu di tre anni di reclusione per ciascuno ed il pagamneto delle spese di processo.
Luigi Smargiassi, Il vastese tra la crisi finale della monarchia borbonica e gli inizi delo Stato unitario - 2005
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