lunedì 28 febbraio 2011

Ottavio Suriani - Bozzetti del villaggio - 1895 - La cieca di Iossa

La ricordo ancora: una donna alta come un pioppo, magra più di uno spino, da li occhi rossicci, piccoli, notanti ne le lagrime, con la voce rauca e grossa.
Era l'orca dei bambini, il passatempo di noi fanciulli. Quando si udiva il gracidio de' suoi scarponi sul ciottolato, l'attorniavamo gridando: Odi, zia brutta, le tue barcacce hanno fame... si lagnano sempre.
E altri alludendo ai capelli arruffati, come rovi di fratta: Coglieremo anche quest'anno le moricole dal tuo Rivullo?
Essa ci rincorreva imprecando, scagliava pietre, e guai a chi acchiappava: ne aveva per tutti. Il nipote del canonico, che ebbe la sfortuna di dare tra quelle granfie, può dire la forza bestiale, che la megera sfogò su la sua schiena, con quelle mani ossute, mentre gli stringeva la testa fra le gambe scheletrite. Anche oggi ne risentirebbe, se non fosse corso in suo aiuto D. Camillo, il maestro elementare.
Tutti la chiamavano in cieca di Iossa, non so se per soprannome, o dal suo paese nativo.
A vederla un mucchio di cenci e di ossa, sembrava mendicante, mentre la casetta, che abitava accanto al Torrione ai piedi del villaggio, era sua e possedeva una quota di bosco. Ma la vera ricchezza, come lei stessa diceva, era Rutilia, sua figlia.
Un bel tocco di ragazza su la ventina, da' denti più bianchi de la ghiaia del Sinello, con i capelli biondi, come quelli de le pannocchie fresche e due occhi vispi, che dolcemente azzurreggiavano sotto le ciglia di oro.
- Sarà la figlia di un signore - dicevano le maligne, guardandola con invidia.
La povera giovine non poteva dare un passo sola; la cieca l’era a le costole al pari di un segugio, a chiesa, a la vendemmia, a côrre l’ulivo, spigolare, dovunque.
Nessuno de' giovanotti passava più di una volta dinanzi a la sua casa, per tema de la mamma.
- Io devo trovare il marito al mio tesoro; - ripeteva a ogni richiesta, - un giovane serio, ricco, bello come lei - e lagrimosa chiudeva li occhi, come se guardasse il sole.

Una sera nel negozio di Romualdo, presso il castello medievale, discorrevano D. Alfredo, il maestro e il sindaco a una luce sanguigna, gittata su le loro facce dal lume a petrolio pendente da la volta bassa.
- Dopo la sconfitta volevano fare la dimostrazione. A che quelle grida, quel dimenare una bandiera, in cui il giallo aveva, sostituito il verde?
- Non sanno nulla, poveri sciocchi, sono guidati dal vino e da vane promesse.
- Il bello era dopo lo scrutinio: fra i caporioni, chi fuggiva da un lato e chi da un altro. Quel palo vestito, dal barbone brizzolato, era la nota comica: l’ira gli aveva avverdito il volto quasi nascosto dal cappello a cencio, mordeva il mozzicone del sigaro spento, e camminava, dondolandosi, senza sapere dove andare.
- E i preparativi... li spari, i pranzi, le cene, le luminarie...
Tutto svanito... fatica sciupata...
Scacco matto... ah ! se fosse vissuto la buon'anima del dottore.
- Vorranno ripresentarsi?
- Staremo a vedere.
Si spalancò la vetrina: una folata di vento fece volare dal bancone le carte, la fiamma si allungò nel tubo. Apparve la cieca ansante: mi hanno rubata mia figlia… la mia Rutilia... Io la voglio... la voglio; non posso stare senza di lei. Signor sindaco, dovete pensarci...
- Che posso farti.
- Chi e stato? - chiese il maestro.
- Non so; se lo sapessi - e si mordeva le dita.
- Io poveretta sono andata per testimone a Vasto, ho lasciato il mio tesoro a casa, non volevo che si ammalasse a questo scirocco... L'avessi condotta con me! Sono tornata oggi... poco prima,... la porta di casa era chiusa, ho picchiato inutilmente. Zia Michele, la mia vicina, mi ha detto ch'era andata per acqua a la Marracola verso ventun'ora e non l’ha vista tornare. Da le amiche non vi è... me l'avranno rapita... Aiutatemi... Se io sapessi l'infame, mi ubriacherei del suo sangue. Voglio mia figlia... morrò senza di essa, la mia Rutilia bella - e piangeva contorcendosi in una maniera straziante e ridicola ne lo stesso tempo.
- L'unico rimedio va dal brigadiere a Cupello; raccontagli tutto ed egli penserà al resto.
Uscì silenziosa e corse a la caserma. Aprì la porta un uomo sonnacchioso.
- Mi hanno rubato, signor carabiniere.
- Il cervello forse? - rispose sdegnato il soldato, squadrandola.
- Mia figlia.
- Le dovevi fare la guardia, vecchia cenciosa - e le serrò l’uscio sul naso.
- Aprite per carità, - e picchiava forte. - Ritrovate l'infame. -
Nessuno rispose, dovette andarsene.
Vagò tutta la notte, domandava a le masserie, entrava ne' pagliai, rovistava da ogni parte.
- Rutilia, Rutilia mia - gridava a squarciagola tra li olivi; tendeva l’orecchio: le rispondeva l’eco, qualche strillo di uccello notturno e il mormorio de la Cena, che correva, tra i canneti.
La mattina dopo, sfinita, lagrimosa ne li occhi più del solito, pregava, come se rantolasse davanti a la statua de la madonna, a cui luccicava il volto di smalto ai raggi del sole nascente.
Come fare senza di lei?... dimmi dov'è, chi me l’ha rubata... Non me lo dici? E gridava come un'ossessa, dandosi pugni su la testa. Con il core dilaniato lasciò la chiesa.
- Cieca di Iossa, hai maritata tua figlia?... l’ho incontrata con Rocco - disse in tono di scherno il nipote delo scardassiere - per il viottolo del mulino.
L’amore di madre vinse la stanchezza: si alzò di botto, scese per la Solagna e, passato il ponte di legno ne la piana del mulino, giunse a la masseria del Mirolli, con l'immenso pagliaio vicino.
Un giovane tagliava da una bica a cono il fieno con l’accetta.
- La Rutilia dov'è? infame... rendimila, la voglio subito.
- Sei pazza?
- Di dolore si... Neghi che me l’hai rubata?
- Vattene per il tuo meglio... se non vuoi provare questo ferro in testa.
- Lo dirò a Crescenzo: se non mi sentirà a la giustizia... Dammi mia figlia.
Rocco per risposta le dette una spinta. La vecchia si alzò impolverata fissandolo con uno sguardo feroce, scomparve dietro una fratta di bucache. Là si raggomitolò, si nascose.
Tremava tutta come foglia, ne toglieva mai l’occhio da la masseria: là doveva essere il suo tesoro.
La sera dopo la squilla, quando i coloni mangiavano, si trascinò piano fino a la porta, rattenendo il respiro. Un cane le venne incontro minaccioso.
- Fido qua - e l'accarezzava, mentre la bestia, riconosciutala, le leccava le mani.
I contadini parlavano tra 1oro: Ma come l'avrà saputo la vecchia, se nessuno ti ha visto?
- Non importa, venisse un reggimento intero, non la troveranno: il nascondiglio è sicuro.
La cieca di Iossa non ci vide più: dunque era proprio là sua figlia, nascosta chi sa dove, e lei cosi maltrattata.
Fattasi al pagliaio grande come una casa, che custodiva il foraggio per l'invernata, accese un fiammifero di legno, il vento lo spense; fregò un altro contro una pietra e lo chiuse tra le mani: la prima fiamma violacea le indorò le palme.
Guardando attorno lo cacciò sotto la paglia: li steli si annerirono, si piegarono e tra lo scricchiolio del seccume apparve la vampa.
Tornò ad accovacciarsi dietro le bucache. Provava un piacere bestiale a vedere le lingue di foco spinte dal vento allargarsi, allungarsi, come grossi serpenti di oro ne l'oscurità de la notte. L'incendio si propagò in un attimo, la casa ne riluceva.
- Brucia il pagliaio - gridò un garzone.
Uscirono uomini con le pale, zappe, secchie; gittavano su la paglia, terra e acqua, mentre quella luce l'insanguinava.
Rocco disperato gridava: Presto... coraggio... che dentro vi ha Rutilia...
La madre udì quel nome e un grido tra le fiamme: un gelo le corse per la vita.
- Mia figlia là… e io vi ho appiccato il foco.
Forzò la porta: era chiusa a catenaccio; non potette aprirla per il fumo e le fiamme, che accecavano, le toglievano il respiro.
- Mamma aiutami.
- Vengo…
Prese la rincorsa, si slanciò contro il legno: cedettero i cardini e cadde nel foco.
La campana del villaggio sonava a stormo fra gridi e latrati: traeva gente al pagliaio, che bruciava come vulcano, con crepitio terribile. Insieme con lo strame incenerivano la madre e la figlia!...

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