giovedì 3 novembre 2011

Commemorazione festa dell'’Unità nazionale, giornata delle Forze Armate, celebrazione per il 93° anniversario della fine della Grande Guerra e intitolazione “Piazzale 22 OTTOBRE 1943”

Domenica 6 novembre,
Ore 11,00: Santa Messa nella chiesa parrocchiale, al termine deposizione della corona d’alloro e alzabandiera presso il Monumento dei caduti in Largo San Francesco;
Ore 12,00: Corteo dal Monumento ai caduti al Monumento di “Piazzale 22 ottobre 1943” – Cerimonia di inaugurazione del cippo commemorativo dedicato ai deportati ed ai caduti del 22 ottobre 1943.
Saluto delle autorità.

La cittadinanza è invitata a partecipare.


Una drammatica testimonianza di quei giorni fatta da Tommaso Raimndi
Con lo sbarco a Termoli e la resistenza tedesca sul Sangro, Vasto si trovò in mezzo e ne patì tutte le conseguenze: bombardamenti degli Alleati, mine e saccheggi delle squadre dei tedeschi guastatori. Fu ordinato l'esodo della popolazione ed io mandai la famiglia a Furci, restando solo a casa, dove cominciò il saccheggio sotto i miei occhi.
Ma ecco anche l'ordine per gli uomini validi al lavoro, dopo l'occupazione dei due edifici scolastici trasformati in ospedale tedesco. Fuggii nel vicino paese natio, dopo aver visto la sorte del giudice e di un mio nipote catturati e tenuti in ostaggio con la minaccia di fucilazione.
Passai la notte in casa di mia sorella. Ma al mattino, tra le sei e le sette, circondato il paese, i tedeschi presero tutti gli uomini validi (176 mi pare) e li caricarono su dei camions.
Io fui preso ancora a letto e non mi diedero il tempo nemmeno di allacciare le scarpe. Nella confusione, riuscii ad eludere la vigilanza ed a nascondermi in una legnaia di una mia cugina. Ma dopo un'ora, il bando dei tedeschi che minacciava di morte chi era sfuggito alla cattura, terrorizzò le mie parenti che vennero da me a supplicarmi di partire temendo la fucilazione. E partii anch'io. Giungemmo la sera a Castel di Sangro, alloggiandoci nei locali delle Scuole, una mezz'ora dopo ci fecero sloggiare e via per Rocca Cinquemiglia. Faceva freddo ed umido. Io capitai con una cinquantina di compaesani, in un grande stallone con molta paglia. Fianco a fianco, per riscaldarci, ci coprimmo anche la testa con la paglia. Ma chi poté dormire, in quelle condizioni e, per giunta, senza toccare cibo? Il mio pensiero correva alla mia famiglia e ai due figli piccoli ignari della mia sorte, e al secondogenito del primo letto che si trovava in provincia di Pescara, presso i nonni materni, alla casa abbandonata, alla mercé di tutti. Mia moglie era partita con qualche valigia di roba, io con il solo vestiario che avevo addosso.
Avevo 49 anni e dovevo sottopormi a disagi, privazioni e lavori pesantissimi. Infatti, il mattino, ben presto, sveglia e partenza per la montagna vicina. I primi giorni dovevamo trasportare, dalla valle, bidoni di acqua o travi pesantissime. Poi, con una vanga o un piccone o una pala dovevamo scavare piazzole per mitragliatrici, a gruppetti isolati. Patate e pane scuro. Ma dopo qualche giorno, la sera io, un mio nipote (studente in medicina che si spacciò per medico) e un mio cugino potevamo consumare qualcosa che «il medico » riusciva a procurarsi clandestinamente. Ma io e qualche altro non potevamo resistere a lungo a quei lavori pesanti e passammo una visita medica. Io avevo una febbre reumatica. Fummo prescelti in 16 e messi in nota per essere rinviati a casa. La sera seguente l'interprete ci raduna e legge gli otto nomi di quelli che soli, dopo la seconda cernita, avevano avuto la concessione della libertà. Giunse alla chiamata del settimo ed io non ero tra quelli. Avevo perduto ogni speranza, quando pronunciò, storpiato, l'ultimo nome (Trosmonti, Rosmondi), gridai: «presente!» Ed ebbi un mezzo collasso. Ci dissero che saremmo stati liberi di partire il mattino seguente. Intanto durante la notte riuscirono a fuggire tre o quattro compaesani intraprendenti e insofferenti. Il mattino, tranne uno veramente in condizioni pietose, fummo tutti riportati al lavoro.
Pensammo che la fuga degli amici aveva compromesso la nostra libertà.
Era domenica. Una pioggerella sottile c'infradiciava le ossa. Io avevo una pala per spalare il terriccio picconato da un compagno, ma non avevo neanche la possibilità di mettermi in piedi per riposare qualche minuto, perché i reni mi davano dolori lancinanti. Ad un certo momento domandammo quanto tempo c'era ancora per mezzogiorno, ora in cui dovevamo smettere. L'austriaco di sorveglianza, con stizza c'indicò l'orologio e con un gesto ci fece capire che mancava ancora mezz'ora.
A mezzogiorno si smette e si torna agli alloggiamenti, ove l'interprete ci annuncia che eravamo liberi di andarcene, consegnandoci una velina con uno scritto in tedesco. «Via, via, prima di un altro contr'ordine» dissi io e mi misi a capo del gruppo, precipitando verso Castel di Sangro. Dopo qualche chilometro, dovemmo attendere il malato grave che si trascinava a stento.
Comincia la pioggia fitta, prendiamo la rotabile, raggiungiamo Castel di Sangro, ma io insisto per la continuazione del viaggio e puntiamo su Ateleta.
Ma la stanchezza, la pioggia e il malato grave (Marcellino Di Giacomo, un giovane sarto che sembrava S. Luigi) ci fecero giungere all'ultima ora del pomeriggio, con la ricerca di un casolare per passarvi la notte. Ed ecco l'uomo della Provvidenza; passa un uomo in senso inverso, lo fermo, gli domando se ci può indicare un casolare vicino e mi risponde ch'era li a qualche centinaio di metri, il suo. Gli chiediamo ospitalità per la notte. «Impossibile».
- Diteci quanto volete.
- Impossibile, devo andare a Castel di Sangro - e si allontana in fretta, dietro di noi.
- Quanto possiamo racimolare tra di noi? - Domandai ai miei compagni.
Io possedevo ancora 30 lire e 50 tutti gli altri. Con le ottanta lire in mano rincorsi quell'uomo e lo supplicai di prendersi quella sommetta ch'era tutto ciò che possedevamo. Finalmente accettò, tornò sui suoi passi e ci fece entrare nel casolare ch'era uno stallone semivuoto. In un angolo vi era un abbozzo di un focolare, dove a turno, quattro alla volta, dopo aver acceso a stento il fuoco con ceppi bagnati, l'abbiamo mantenuto vivo sino all'alba. Rotti e morti di fame, riprendemmo la via maestra per Ateleta. Alle prime case, entrammo dove una donnetta, sulla soglia, curiosava. Fece un po' di resistenza, ma io la rassicurai subito dicendo che desideravamo solo qualcosa per il nostro stomaco.
- Non ho nulla, mi dispiace, ma non ho proprio nulla... Ma vedevo un bel mucchietto di patate in un angolo e gliene chiesi. I miei compagni si misero a ridere, ma io insistetti perché ognuno si riempisse le tasche. E proseguimmo. Giunti alle pendici della montagna di Pescopennataro, sulla cui cima, a strapiombo, si vedevano alcune case, io dissi che dovevamo fare lo sforzo di giungere lassù e sostarvi per la notte. La strada impervia era percorsa da numerosi mezzi tedeschi. Ne fermammo parecchi perché prendessero almeno Marcellino, ma invano. Si presentava la velina indecifrabile, come passaporto, ma tutto inutilmente, con rifiuti sprezzanti.
Giungemmo lassù quand'era scuro (faceva notte presto) e poi, a due a due, dovevamo salire quella montagna trascinando Marcellino e riposando ogni cinquanta passi! ...
Alla prima casa che ci si presenta bussiamo ripetutamente. Apre la porta, col naso in uno spiraglio, una donna. Le chiediamo ricovero per riposare «qualche ora» ma si rifiuta. Insistenze e rifiuti. Finalmente, con dolce pressione entriamo. Un bel focolare, con tre sedie e un banchetto, ci ristora. Un paradiso ci sembrava quell'angolo, ma la fame si risvegliò prepotente.
- Non ho nulla, non ho nulla, i tedeschi si son presi tutto e tutti, compreso mio marito.
- Un caldaio d'acqua, dateci un caldaio d'acqua per farci bollire le patate che abbiamo - feci io.
E quelle patate cotte, con un po' di sale, furono una manna del Cielo.
- Ora è tardi, dovete andarvene.
E chi si muoveva? E dove potevamo andare, sfiniti e morti di sonno, nel buio della notte umida e fredda?
- Voi potete andare a dormire tranquillamente. Noi siamo buona gente, io un Direttore di scuole e rispondo per tutti questi miei cari e buoni compaesani. C'è qui poi uno seriamente ammalato. Se vostro marito si trovasse nelle stesse condizioni, che direbbe se lo scacciassero co¬me vorreste fare voi?
E restammo intorno al focolare, dormicchiando sulle poche sedie o per terra.
Al mattino, altra tappa per Castiglione Messer Marino, sede della mia seconda Direzione didattica. Quando, prima del tramonto, giungemmo alle case di Castiglione, in mezzo ai tedeschi in trambusto per il fronte in movimento per l'avanzata degli Alleati giunti sul Trigno, sotto Celenza, entrammo nella piccola chiesetta della Madonna delle Grazie, che ci ricordava il Santuario del nostro Paese dedicato alla stessa Madonna, per ringranziarla di essere ormai giunti a salvamento.
Poi mi diressi alla casa della mia Segretaria di Direzione.
Bussai più volte. Si aprì uno spiraglio. La Signorina e la sorella volevano subito sbattermi la porta in faccia.
- Non mi riconoscete?
- No, no. Che cosa volete?
- Signorina, sono il vostro Direttore e questi sono miei compaesani; fateci entrare.
- Ah Dio mio! Siete proprio voi? Come potevo riconoscervi nelle condizioni in cui vi siete ridotto?
Convenevoli, domande, qualche ristoro. Poi mandò a chiamare il Sindaco, il simpatico, buono, generoso avvocato Don Emilio Lalli, che venne immediatamente e per prima cosa disse: «Qui ci vuole un barbiere». Avevamo infatti una barba lunga da far paura. Provvide a sistemarci in comode stanze qui e lì nel paese, con l'ingiunzione di restare sino all'arrivo degli Alleati che erano ormai lì a combattere a pochi chilometri.
Ma io e gli altri avevamo troppo vivo desiderio di raggiungere Furci, ove era sfollata quasi tutta la mia famiglia e opposi un cortese reciso rifiuto, ringraziandolo con profonda gratitudine, per la sua cortesia e la sua larga ospitalità.
E il mattino successivo ci avventurammo in mezzo al caos dei combattimenti che si svolgevano nella vallata del Trigno.
Giungemmo a Furci verso le 15, un'ora prima che i Negri, al seguito degli Inglesi, vi entrassero. Era il 4 novembre; 3° compleanno del mio Vittorio.
Chi può descrivere la scena dell'incontro con mia moglie e i miei due ragazzi? Mia moglie non sapeva nulla di quanto mi era accaduto e credeva che provenissi da Vasto!
Dopo la violenta comune emozione con crisi di pianto, io ringraziai ancora una volta il Cielo per essermi ricongiunto con i miei cari che stavano bene. Il paese era stato bombardato e c'erano stati distruzione e morti, ma ancora per lunghi mesi il Fronte fu fermo lì e dovemmo subire allarmi e bombardamenti e disagi, pericoli e miserie.
In quella grande casa di mio cognato si era rifugiato, con i miei, anche un cugino di mia moglie, antifascista che pare avesse una radio clandestina, facendo tremare tutti per tema venisse scoperto. Ma lui ch'era stato tanti anni in America e parlava bene l'inglese e la moglie che conosceva perfettamente il tedesco, se la cavarono magnificamente con i primi e con gli altri occupanti, con una disinvoltura addirittura teatrale.
Nel paese era venuta a mancare l'acqua. Bisognava andare ad approvvigionarsi in una sorgente a un chilometro circa, sfidando i tiri tedeschi.
Mia moglie, preoccupata per i piccoli, cercava di nascondere una bottiglia sotto il letto...
Ma non passò molto tempo e il nostro piccolo si ammala di paratifo. La disperazione di mia moglie giunge al colmo.
Per fortuna nostra, nella casa attigua c'era un vecchio medico condotto che non solo prese a cuore il malatino, ma addirittura si piantava ore ed ore vicino al letto e lo distraeva in cento modi. Ma non vi erano medicine adatte nella piccola ed unica farmacia, sfornita, del paese. In due settimane fui costretto a fare due viaggi, a Vasto, per complessivi 52 km. per volta, in mezzo a montagne di munizioni di artiglieria dei tedeschi che occupavano ancora quella rotabile, col pericolo di essere ripreso e finire chissà dove!
Presto cominciò per Vittorio il tormento della fame, che noi ingannavamo per ore ed ore con «Ecco, fra cinque minuti sarà pronta la minestrina. Mamma sta facendo bollire la pastina. Ancora un pochino e vedrai»...
Era uno strazio per lui e per noi. Ma come Dio volle, guarì. Intanto mio cognato andò a finire nel campo di concentramento di Padula, lui che non aveva fatto mai male ad una mosca e non aveva mai ricoperto cariche fasciste.
Poi con la liberazione di Vasto, gli Inglesi un mattino, sotto un'acqua torrenziale, caricano tutti gli sfollati su dei camions e ci riportano a casa. A casa! giunti laggiù, proprio sotto la nostra casa, e sotto ancora l'acquazzone, troviamo che tutto l'edificio era occupato da un comando inglese. Non mi hanno fatto nemmeno entrare per vedere se c'era rimasto qualcosa.
E come si fa? Corro al Municipio: vi era una confusione indescrivibile. Nessuno mi voleva dar retta. Finalmente strappo un ordine: una carrozza, la prima a mia disposizione per andare dove volevo. Mi decido per il mio vicino paese natio e ci ricoveriamo nella casa in cui abitava mia sorella vedova con la figlia. Uno spezzone precedentemente aveva ammazzato un pover'uomo affacciato alla finestra nella casa a fianco e rotto il tetto della nostra, per cui, durante la pioggia, penetrava l'acqua in camera da letto. Ma era pur sempre un buon ricovero.
E lì altri stenti, privazioni, difficoltà d'ogni genere.
Nel mio paese vi era di stanza un battaglione d'Inglesi con truppe Sud-Africane. Conobbi un giovane militare bello e intelligentissimo che, in cambio di qualcosa da parte nostra, ci dava ogni tanto un po' di cioccolata, un po' di formaggio e dei datteri, qualche scatola di sigarette e qualche pezzo di sapone. Aveva imparato a parlare la nostra lingua in breve tempo e ci comprendeva e si esprimeva in un modo sorprendente.
Qualche volta mi portava a Vasto con la sua jeep ed io andavo in Municipio per rientrare in sede, ma inutilmente. A un certo momento mi consigliarono di non comparire più perché mi si cercava per mandarmi al campo di concentramento!
In attesa della liberazione di Chieti, mentre il fronte si era spostato sul Sangro, con le gravi battaglie e le terribili distruzioni di tanti paesi, come Ortona e Francavilla a mare, si era istallato a Vasto un Prefetto che voleva me e i miei maestri a sua disposizione, anche per formare un abbozzo di Provveditorato! Pazzia addirittura. Riuscii solo a far pagare gli stipendi agl'insegnanti, mentre i due edifici scolastici erano ancora occupati dall'ospedale inglese.
Per fortuna, dopo qualche mese giunge la notizia della liberazione di Chieti, ma prima di ottenere il rientro della mia famiglia nella casa dove abitavo, essa fu fatta occupare da un usciere di Tribunale sfollato con numerosa famiglia. Ottenni finalmente un piccolo appartamento di due vani e servizi. Una mia bidella, durante i saccheggi della mia casa, prima dai tedeschi, poi dagl'inglesi e infine dai «civili», perché quello che non avevano fatto i barbari fecero i barberini, mi aveva salvato 4 materassi di lana e qualche lenzuolo, portandoseli a casa a costo di essere fucilata dai tedeschi. Furono sloggiate anche le scuole.
Mi ritrovai con mio figlio morto, la casa saccheggiata, la scuola distrutta! Del mio secondogenito nessuna notizia.
Ero diventato l'ombra di me stesso.

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