lunedì 27 giugno 2016

Dopo trent'anni

Ottavio Suriani - Bozzetti del villaggio
Lanciano Carabba, 1895


Discorrevo con il brigadiere di Cupello ne la sua camera, quando venne un carabiniere:

- Una contadina di Monteodorisio desidera parlarle.

- La faccia entrare.

Si avanzò ansando una donna su la quarantina, dai capelli grigi, ma aveva ancora la robustezza giovanile, che si acquista nei lavori campestri. La conoscevo: era Giovina Santarelli, mia vicina di casa.

- Sono venuto a darmi ne le vostre mani - e con il grembiale di traliccio si asciugava il sudore.

- Che?

- Ho commesso un omicidio.

Mi fece senso la freddezza con cui parlava.

- Davvero?... a che pro un delitto - soggiunse il brigadiere, senza scomporsi, per carpirle intero il segreto.

- Era mio dovere...

- Come?... è strano... racconta.

- È lunga in storia... Nel sessantatre mio padre lavorava a la ferrovia, la mamma e io abitavamo una casa presso il Morretto, D. Ottavio lo sa, e il fratello era a servizio di zio Saverio di Giacomo, detto il lepre, ne la masseria a Santa Lucia. Un giorno mia madre fu arrestata; piangendo, corsi da Giuseppe, non lo trovai. Egli sorpreso dai briganti, mentre abbeverava i buoi a la Sciarovera, aveva dovuto seguirli.

Restai sola, a quindici anni: tutti rispettavano, mi soccorrevano.

Dopo un mese caporal Giuseppe comandava una banda di dieci brutti ceffi. A dire il vero menava quella vita in modo diverso da li altri: non ha ucciso nessuno, quando poteva, si procacciava cibo dai contadini e dai viandanti.

Il suo compagno fedele, l'amico con cui, come si dice, partiva il sonno, era un omicciattolo brutto, macilento, che per soprannome chiamavasi lo Scoccolo.

Io e la sorella di costui, una donna da occhio di falco, l’informavamo quando usciva la guardia nazionale e in quale direzione andava.

Essi erano al sicuro: la loro fortezza in mezzo al bosco, una quercia cava, enorme li teneva celati. Quante volte vi sono passati vicino i soldati, senza sospettare di nulla.

Quasi ogni sera travestiti venivano mio fratello e l’amico a fare le provviste. Ero in continuo timore pensando ai pericoli, a cui si esponevano; pregavo e piangevo. Li scongiurai tante volte che cambiassero vita, invano!

- Ci ammazzeranno lo stesso - rispondevano ridendo - Abbiamo evitato fortunatamente il fucile di mastro Vincenzo, non vogliamo farci uccidere su di una pubblica piazza.

Una notte, non la dimentico mai, facevo sola la calza accanto al fuoco, udii picchiare a l’uscio; aprii: era lo Scoccolo, vestito da donna.

- E Giuseppe? - gli chiesi tremante, come se prevedessi la sventura.

Sta, sicura: non è passato per le sentinelle; mi aspetta dietro il camposanto. Dammi del pane.

Mi alzai per aprire la madia, ma quella bestia mi si scaglia addosso, mi acchiappa per la vita, credendo mi potesse buttare per terra: con una spinta lo mando contro il muro.

- Vattene.

- Zitta per carità ti voglio bene.

- Esci subito o racconterò tutto al fratello - e lo cacciai come un cane.

Cosi perdetti Giuseppe...

Lo Scoccolo tornava, al bosco, covando la vendetta. Pensava: se non denuncio il caporale, la sorella gli dirà tutto, ne posso sapere come la passerò.

E quella belva andò a denunziare i suoi compagni a la guardia di Vasto; già, non ebbe coraggio il giuda di presentarsi ai paesani. Ordì la trama con sua sorella.

Tornato al rifugio gli domandarono le novità, che sapeva.

- Domani non si esce di qui, fanno perlustrazioni per il bosco una compagnia di soldati e dieci carabinieri.

Ne la notte se la svignò.

A l’alba la sorella condusse la forza armata attorno a la quercia. I rinchiusi vogliono far fuoco: non trovano cartucce; devono arrendersi per non essere bruciati. Stretti da le manette, sono spinti innanzi con i calci dei fucili.

La domenica, non sapevo nulla, fui menata a Vasto da le compagne. Su la pianura del mercato tra un cerchio di soldati e curiosi era Peppino con i suoi, aspettando la morte.

Udii dei colpi, un grido: caddi svenuta.

Mi ritrovai nel mio letto; al capezzale vi era mamma e tata, che piangevano.

Lo Scoccolo con il carcere pagò il tradimento e là, come meritava, fu ucciso.

Mio fratello un giorno dandomi un coltello affilato mi disse: Prendilo, ti servirà per vendicarmi.

Con chi doveva vendicarmi? con la sorella.

Spiavo sempre quella donna; la seguivo dovunque, come un cane la preda, e mai ebbi in fortuna di trovarla sola: o era, in compagnia, o mi cansava a bella posta.

Cosi sono passati trent'anni, l’ira era svanita: dimenticavo quasi tutto l’accaduto.

Stamattina Rosa, la serva di D. Pasquale, vedendomi su la porta: Hai fatto dire la messa per tuo fratello? -

La vendetta mi si risveglia, rividi la scena sul piano de l’Aragona di Vasto: oggi è il trentesimo anno.

Corro alla casa de la spiona, era seduta al telaio. Le son sopra con il coltello: con quell’ebbrezza ho visto spicciare il suo sangue! Una voce gridava: dalle, dalle, e io raddoppiava i colpi, la forza.

Lasciai di ferirla quando è caduta morta per terra, crivellata di ferite.

Non ne sono dispiaciuta, nè mi pento. Ho ubbidito al volere di un morto: il suo coltello è ancora fitto nel core di quella traditora.

Ho detto tutto: ammanettatemi.

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