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giovedì 28 marzo 2024

Torquato Tasso a Monteodorisio?

 

Torquato Tasso


Chissà se nel suo castello, eretto sul colle di Monteodorisio, nel retroterra di Vasto, abitò mai la bella ed energica fiorentina, Andreina Acciaiuoli. A lei, divenuta nel frattempo contessa d’Altavilla, il Boccaccio dedicò il “De claris mulieribus”, paragonandola per le sue virtù agli “uomini grandi”. Era sorella di Nicolò Acciaiuoli, il fiorentino che aveva ottenuto la fiducia della vedova Caterina di Taranto (e forse, dicono, ne era divenuto l’amante) ed esercitava abilità ed astuzia a favore del figlio di lei, Luigi di Taranto, Andreina si era inserita nella nobiltà napoletana sposando Carlo d’Artus che re Roberto doveva stimare particolarmente: nel 1337 lo aveva fatto gran camerlengo e gli aveva dato i feudi di Sant’Agata e di Monteodorisio; poi lo aveva nominato tra i suoi esecutori testamentari. Morto il re (1343) si erano sca-tenate le questioni per la successione al trono.

Quando, nel 1345, Andrea d’Ungheria, marito di Giovanna, fu ucciso, i sospetti caddero sui partigiani del principe di Taranto, che aveva subito approfittato della vedovanza della regina, per mettersele a fianco (anche se potrà ufficialmente sposarla solo nel 1348). Ma i suoi nemici, che a loro volta aspiravano ad impadronirsi della regina e del trono, si assunsero il compito di giustizieri, e dopo aver suscitato tumulti popolari in Napoli si fecero consegnare dalla regina, il 6 marzo 1346, quelli che ritenevano gli assassini di Andrea: con Filippa de Cabanni, i suoi figli ed altri, fu preso anche Carlo d’Artus (una lettera a lui indirizzata da Carlo di Durazzo servirà poi al re d’Ungheria, Ladislao, per chiamare responsabile anche quest’ultimo); nel 1347 tutti furono giustiziati.

Così, Andreina era rimasta vedova e possiamo immaginarcela in lacrime nel suo sicuro castello di Monteodorisio, preoccupata forse di risolvere il problema del proprio futuro. Il destino degli Artus, rimasti conti di S. Agata, si concluse durante il regno di Ladislao di Durazzo: l’ultimo di essi, accusato di cospirazione, fu giudicato, pare, da Giovanni da Capestrano, che del re Ladislao era amico e che aveva, forse, iniziato ad esercitare la magistratura a Napoli.

Questi diventò poi «uno excellentissimo et sancto predicatore… che faceva miracoli de sanar amalati cechi sidrati resuscitar morti etc.». Qualcuno attribuisce la sua conversione, avvenuta nel 1416, al rimorso di aver consentito alla barbara esecuzione dell’ Artus alla presenza del figlio che ne sarebbe morto a sua volta di crepacuore. Il castello di Monteodorisio era stato fondatò, da Odorisio conte de’ Marsi alla fine del secolo XI ed era stato assediato inutilmente dai Normanni.

Era poi appartenuto ai conti di Loritello e poi al demanio regio, Alla metà del secolo XIII se ne impadronì Corrado d’Antiochia, che nel 1268 sostenne Corradino e quindi da Carlo d’Angiò fu privato di tutti i suoi feudi. Tra i seguaci dell’Angiò si trovava anche il poeta italiano Sordello da Goito che il 5 marzo 1269 ricevette in feudo (Carlo lo dichiara in questa occasione «miles familiaris et fidelis») cinque castelli abruzzesi, tra i quali Monteodorisio, che era stato preso dopo notevole resistenza.

Il 30 agosto del1o stesso anno questi feudi passarono a Bonifacio di Galibert (non si sa se per la morte senza eredi del poeta, per vendita, o per altri motivi). Nel 1337 la contea fu affidata a Carlo d’Artus e dopo la sua morte, nel 1349 fu assegnata a Lalle Camponeschi, viceré degli Abruzzi. Luigi di Taranto (incoronato re nel 1352) in questi anni aveva dovuto affrontare gli eserciti di due capitani di ventura, mossi contro di lui dai suoi rivali, i Durazzo, e dal re d’Ungheria: Corrado Lupo e poi Corrado Lando. Dell’uno e dell’altro, non sapendo liberarsi con le armi, si liberò col danaro: e pare che, dopo essere stato sconfitto a Lanciano da Conado Lupo, egli abbia proprio trattato nel castello di Monteodorisio i termini economici per renderlo inoffensivo. Nel 1391 la contea apparteneva a Cecco del Cozzo o del Borgo, primo marchese di Pescara, dal quale passò alla figlia Giovannella che nel 1407 diede statuti al paese. Se ne impadronì poi Giacomo Caldora, che restaurò il casteIlo e lo trasmise al figlio Antonio. Alfonso d’Aragona successivamente riconobbe le ragioni di Giovannella del Borgo e le restituì la contea, che passò alla nipote Antonella d’Aquino. Questa divenne moglie di Innico I d’Avalos, spagnolo, che era al servizio di re Alfonso d’Aragona. Il nipote, Alfonso d’Avalos, riunì la contea di Monteodorisio al marchesato di Vasto e di Pescara. Nella seconda metà del secolo XVI sembra che i d’Avalos abbiano ospitato nel castello Torquato Tasso.

Al marchese d’Avalos sono dedicati numerosi passaggi dell’Orlando furioso come XV, 28, 2-4: "veggio un marchese, e veggio dopo loro / un giovene del Vasto, che fan cara / parer la bella Italia ai Gigli d’oro", XXVI, 52: "l’altro Alfonso del Vasto ai piedi ha scritto", e XXXIII, 47, 7-8: "L’altro di sì benigno e lieto aspetto / il Vasto signoreggia, e Alfonso è detto".


lunedì 25 marzo 2024

Apprezzo

 



Il giorno 10 marzo 1742 fu emanato il bando che nell'annunciare la formazione del catasto e dell'apprezzo generale del contado indicava tra l'altro la necessità di eleggere sei deputati a tutte le operazioni di censimento e valutazione dei beni. Sei abitanti, suddivisi per ceto; due del primo, due del secondo, e due del terzo ovvero i rappresentanti dei tre ordini socio-economici in cui veniva classificata la popolazione: nobiltà, ceto medio e ceto degli inferiori. Essi rappresentavano inoltre le diverse frazioni territoriali. I prescelti furono rispettivamente Domenico d'Alfonso e Ignazio Sanese; Cesare Falcucci e Marcantonio Festa; Raimondo e Giuseppe Valenzio. 

La loro elezione avvenne il 20 maggio 1742 a seguito di convocazione in pubblico parlamento dei capofamiglia. Le operazioni di estimo furono affidate a quattro esperti: due cittadini e due delle terre più vicine; "... pratici del mestiere di riconosciuta probità, timorati di Dio e intesi del valore e della vendita dei terreni al fine di evitare ogni controversia affinché l'apprezzo come base fondamentale del catasto sia regolato con giustizia e senso di eguaglianza". Successivamente furono nominati due deputati per i rispettivi ceti ecclesiastici, regolari e secolari, allo scopo di valutare i loro beni.

 

Al Sig. D.Domenico Caravita Pre.te della Regia Camera e Commissario

Avendo di già compito l'apprezzo della Città del Vasto, terra di Francavilla e città di Pescara che con decreto di VS nella data 22 Aprile dello scorso anno 1741; in esecuzione d'altro decreto della Regia Camera del 4 Aprile 1740 mi fu commesso: passo a perfezionare l'apprezzo del Contado di Monteodorisio consistente in 13 terre, incluse le due ville; e per prima descrivo ed apprezzo la terra di Monte Odorisio e susseguentemente le altre nel modo che segue.

La terra di Monte Odorisio sta situata in Provincia di Abruzzo Citra in un ottima situazione, distante da questa fedelissima città di Napoli miglia 180 alla quale vi si giunge per la strada della Puglia galessabile. Dista la terra suddetta dalla città del Vasto miglia 3; da quella di Chieti miglia 36; da Pescara miglia 40; da quella di Lanciano miglia 18; da Foggia miglia 72; dall'isola di Tremiti miglia 60; da Francavilla miglia 36; e dall'isola di Capriola miglia 36, come dalla fede della Università foglio 93. Sta posta la medesima sopra di una collina in luogo piano di figura bislunga, e per stare in un sito eminente si godono amenissime vedute cosi di piani, colli, mare Adriatico, come dell'isola di Tremiti, montagne della Schiavonia e buona parte delle terre del contado suddetto; viene mirata dal sole dall'apparire al tramontare d'esso, ed è agitata da continui venti che la rendono di perfetta aere, come viene anche dal registro dei testimoni esaminati per parte dei creditori su l'articolo 3 foglio 136,137 e 138.

Era prima la terra suddetta tutta murata d'intorno colle sue torri quadre le quali al presente sono tutte dirute, essendovene poche all'impiedi; che per altro luogo vi si possa entrare se non che per quattro porte; la prima detta Carbonara, la seconda di San Francesco, la terza del Castello e la quarta delle Cupelle. Ed entrando in detta terra per la prima dell'enunciate porte detta la Carbonara si trova una strada larga e spaziosa con giardini ortilizi dall'una parte e l'altra, nell'ultimo della quale vi stava il convento soppresso ed abolito dell'ordine dei Conventuali di San Francesco di Assisi, al presente la sola chiesa ad una nave coperta a tetto sotto il titolo suddetto, consistente in una porta ornata alla gotica per la quale si entra in essa. In testa v'è l'altare maggiore isolato, a destra ed a sinistra vi sono due cappelle con cone architettate, la prima sotto il titolo del Santissimo Rosario e la seconda di S. Antonio, in dove stà addetta la Confraternita di 30 fratelli, i quali si regolano tra di loro. La medesima non ha fondo per essere da poco tempo formata, come dalla fede dell'Università foglio 71; tengono il loro Capellano beneficiato col peso di celebrare tantum nei giorni festivi e tiene di rendita annui ducati otto.

Uscendo da detta chiesa a frontespizio d'essa si trova la seconda porta, detta di S. Francesco che ha l'uscita al rinforzo di detta terra ed alli territori dell'abitanti d'essa. Ritornando nel largo avanti detta chiesa a sinistra vi sta una strada ch'esce alla piazza e da essa se ne trova un altra per la quale si va alla porta delle Cupelle, a destra ed a sinistra vi sono le case dei cittadini a più ordini coperti a tetto con molti vicoli per la divisione di esse.

Nel principio del qual largo si trova il Palazzo Baronale consistente in un coperto a lamia bislungo, li segue il primo cortile scoperto murato d'interno, a destra vi è un vacuo con coperto a lamia sopra il quale vi sta un orticello incolto della Camera Baronale ed a sinistra per porta tonda si passa al secondo cortile similmente scoperto, in mezzo al quale vi è la bocca della cisterna e due porte, per la prima a destra, mediante due scalini, si cala in quattro stanze terranee situate sotto l'abitazione da descriversi, con finestre verso occidente, e per la seconda a sinistra si ha una stanza per uso carcere coperta a lamia. Ritornando in detto cortile per grada scoperta s'impiana ad un coperto a lamia sostenuta da cinque pilastri ed in esso sono tre porte, per la prima mediante due scalini si ha un piccolo gaisetto coperto a lamia da dove mediante due scalini si cala nel giardinetto situato sopra il vacuo descritto in piano al primo cortile; per la seconda si ha il braccio a sinistra consistente in due stanze coperte a lamia lastricate nel suolo con tre finestre e camino alla romana ornato di gesso e per la terza ed ultima porta si ha il braccio di destra consistente in cinque stanze coperte a lamia lastricate con finestre così verso la strada come verso li territori con balconi e pettorata di ferro a petto palumbo ed in esse vi sono comodi camini alla romana ed in questo consiste il Palazzo suddetto quale è tutto coperto a tetto. Contiguo al palazzo suddetto vi sta un comprensorio di case della Camera Baronale al presente diruto osservandosi da parte in parte solo le mura all'impiedi.

Ritornando nella strada detta della piazza a sinistra vi è la chiesa madre sotto il titolo di san Giovanni Battista, consistente in tre navi, coperta a tetto, in testa vi è l'altare maggiore isolato con tabernacolo per riponnere il SS.mo Sacramento, con due porte che entrano al coro, sopra delle quali vi sono due statue, una di Sant'Anna e l'altra di San'Giovanni Battista; a destra e a sinistra delle navi suddette vi sono quattro altari: nel primo vi è il quadro di San Marcellino, nel secondo di San Carlo, nel terzo di Santa Caterina e nel quarto del Santissimo Crocifisso, vi è il pulpito, la fonte battesimale e suo campanile quadro dove vi sono tre campane: una grossa e due piccole. Viene governata detta chiesa da un Arciprete che tiene cura di amministrare i Sacramenti e tiene d'entrata circa annui ducati 97 come dalla citata fede dell'Università.

E proseguendo il cammino per la suddetta strada poco più sopra si trova una chiesa sotto il titolo di San Domenico coperta a lamia con suo altare in testa e quadro di detto santo, a destra e a sinistra ve ne sono molti altri sotto il titolo di diversi santi, sopra l'Ennado vi è il campanile a ventaglio con campana e vi si celebra quando è la festività di detto santo dall'Arciprete suddetto.

Poco discosto da detta chiesa similmente nel piano di detta strada si trova la chiesa sotto il titolo di San Nicola ad una nave coperta a tetto, con suo altare e nicchia dove sta la statua di detto santo, sopra la porta vi è il campanile a ventaglio con campane e vi si celebra ogni giorno dal cappellano, che si nomina dal Marchese, quale ha il titolo di Proposito, e presentemente ritrovasi conferita, dalla Baronal Camera per essere suo jus Padronato, al reverendo D. Angelo Cianciuso, con la rendita di circa annui ducati 200, come dalla fede dell'Università foglio 84 e viene deposto dai testimoni esaminati per parte dei creditori su l'articolo 9 foglio 136,137 e 138. E camminando più sopra si trova un largo in dove si vede eretto il castello, situato sopra un promontorio, consistente in 4 baloardi e sue cortine tra essi, con altre abitazioni e comodi, le quali al presente sono tutte dirute osservandovene poche all'impiedi.

Seguitando il cammino per detto largo si trova una chiesa accanto al Castello sotto il titolo di Santa Maria Maggiore al presente diruta standovi solo il campanile all'impiedi.

Da sopra la sudetta se ne ritrova un'altra anche diruta col titolo del Salvatore e per ultimo uscendo dalla porta delle Cupelle si trova il monastero diruto sotto il titolo di San Nicolò dei PP. Celestini essendo solo il campanile all'impiedi.

Distante dalla suddetta terra un miglio si ritrova il convento e chiesa sotto il titolo di San Berardino dei P.P. Zoccolanti Riformati, quale chiesa è ad una nave coperta a tetti, in testa vi è l'altare maggiore e coro dietro ove officiano li Padri, ove sta il quadro di Santa Maria degli Angeli; a destra e a sinistra vi sono tre cappelle: una sotto il titolo di San Pasquale, l'altra della S.S. Concezione e la terza di Sant'Antonio, vi è il pulpito e campanile a ventaglio ed una campana; da dietro il coro vi è la sacrestia in dove si conservano le suppellettili necessarie, e da essa si passa al chiostro di figura quadra con corridoi all'intorno, diviso da pilastri con arco, nel mezzo vi è il deritto della cisterna e due piedi di merangoli e nel piano di detti corridoi vi sono tutte le officine necessarie, da dove poi per gradetta di fabbrica s'ascende all'abitazione dei Padri coperta a tetti, consistente in due corridoi dove stanno le celle dei Padri e ve ne risiedono al numero di 12: cioè cinque sacerdoti, un chierico e l'altri laici. E finalmente all'intorno di detta terra vi sono vari giardini ortilizi e vigne con pozzi d'acque sorgive e cisterne che si possiedono dall'abitanti di detta terra, come pure varie fontane d'acque perenni in dove le donne vanno a lavare li panni.

Confina il territorio di detta terra con quella del Vasto distante miglia tre verso oriente, con San Salvo distante miglia 4 anche verso oriente, col fiume Trigno, Monte Negro e terra di Lentella di là dal fiume distante miglia 6 verso mezzogiorno, col territorio di Furci distante miglia 6 anche verso mezzogiorno, la quale da promiscuità di pascolo tantum nei luoghi demaniali, con Scerni distante miglia 5 verso occidente, con la quale vi sta la promiscuità d'acque senza poter pernottare, e con il territorio di Gissi distante miglia 9, il tutto come si legge dalla fede dell'Università foglio 25 e dal deposto dei testimoni su l'articolo 9 dei creditori foglio 136, 137 e 138.

Principiano i suoi confini tra il territorio del Vasto, e proprio nella sboccatura del vallone, detto il Maltempo, che sta nel fiume Asinello, dalla quale sboccatura andando verso sopra si giunge nel luogo detto Colle dell'Amendola. dal quale luogo camminando più sopra si giunge alla strada che va a Lentella dalla quale strada traversando per un piccolo vallone e camminando sincome vanno le sue rivolte si giunge ad un altro vallone, detto il vallone Grande, dal quale vallone camminando per basso si va al luogo detto li Ribattoni dove termina il territorio del Vasto e principia quello di San Salvo per distanza di miglia 6, dal qual luogo andando per il vallone della Bufalara a basso si giunge alli piani di San Salvo e per essi a drittura si giunge al fiume Trigno, ove finisce il territorio di San Salvo e principia quello di Montenegro di là dal fiume per distanza di miglia tre, dal qual luogo andando fiume fiume, sincome vanno le sue rivolte, si giunge al luogo detto Pietra Fracida, dove finisce il territorio di Montenegro e principia quello di Lentella per distanza di miglia due, da dove seguitando fiume fiume si giunge al luogo detto Guardiola, dove il territorio di Lentella termina per distanza di miglia tre e principia quello di Frisa, da dove camminando per il fiume si giunge alla Merce dove finisce il territorio di Frisa e principia quello di Mora per distanza di un miglio, d'onde tralasciando detto fiume ed immettendosi in un vallone ed entrando per dentro di esso si giunge al luogo detto le Tresinope; dal qual luogo calando si trova il vallone detto delle Cresi, da dove andando vallone vallone sino alle coste delli Lombardi finisce il territorio di Mora e principia quello di Furci per distanza di miglia 2 1/2 dal qual luogo andando per territorio montuoso si giunge al luogo detto Finaguerra, d'onde camminando più oltre si ribocca ad un vallone detto della Grotta, dove finisce il territorio di Furci e principia quello di Gissi per distanza di miglia due; dal qual vallone andando verso basso si va al tratturo e camminando tratturo tratturo si sbocca al fiume Asinello, dove finisce il territorio di Gissi e principia quello di Villa Ragna per distanza di 1/2 miglio, da dove calando fiume fiume si giunge al vallone della Gradina e lasciando il detto fiume Asinello in territorio di Monte Odorisio ed andando per dentro detto vallone ad alto si va al luogo detto Colle della Gradina da dove calando per il vallone, detto del Verino si giunge al tratturo e andando tratturo tratturo fino al luogo detto la Cerqua della Guardia finisce il territorio della Villa Ragna e principia quello di Scerni per distanza di miglia tre, da dove andando per la Selva Marrollo si giunge al vallone detto la Selva Bardella dal qual vallone calando per dentro d'esso si arriva al fiume Asinello e proprio nel luogo detto il Passo delle Noci dove finisce il territorio di Scerni e principia quello di Pollutri per distanza di miglia tre, da dove andando fiume fiume si giunge di nuovo alla sboccatura del vallone del Maltempo d'onde s'è principiato per distanza di miglia due.

Quale confinazione si è da me fatta coll'intervento dell'esperti eletti dalla Università di detta terra, cioè Ignazio Sabino, Marcantonio Festa, Nicola Galante, Francesco Piccirillo, Leonardo Di Carlo, Matteo Maurizio con altresì dell'esperti eletti dall'Università confinanti, in foglio 33 ad 58.

Viene il territorio di detta terra racchiuso dai suddetti confini: piano, montagnoso e costeroso e per stare in sito eminente esposto al sole, come di sopra sta detto, produce vini di buona qualità, frutta d'ogni genere, vettovaglie ed in particolare grano, com'altresì verdure per il loro vitto ed il di più lo smaltiscono nelle città e terre convicine e tra l'altre in Lanciano, dove si fa due volte l'anno la fiera: il 13 giugno e l'8 settembre come anche il mercato il sabato.

Li abitanti di detta terra sono di buon aspetto e complessione essendovi gran quantità di fanciulli, vestono generalmente di panni ordinari per essere quasi tutti bracciali, vi sono tra essi tre falegnami, 5 sartori ed un ostetrica come dalla fede dell'Università foglio 86. Per comodo dell'abitanti di detta terra vi sono tre cavalli, una giumenta, 8 bovi, 21 vacche, 39 pecore, 29 capre, 56 scrofe, 25 somari ed animali neri di mercanzia n. 357 come dalla fede dell'Università foglio 79.

Possiede l'Università di detta terra molto territorio demaniale fruttoso e boscoso, dove il barone può fare pascolare i suoi animali come primo cittadino e tiene anche molto territorio seminativo.

Vive la sudetta Università a tassa come dal foglio 90, con il denaro della quale paga i suoi pesi ordinari e straordinari, tenendo anche la rendita del forno, affitto dell'osteria ed altro come da detta fede. Dalla medesima si elegge il Predicatore Quaresimale come dal foglio 80, al quale corrispondono ducati 12, non avendovi jus alcuno la Baronal Camera nell'elezione, come dalla fede dell'istessa foglio 81.

Viene governata la terra suddetta da un Camerlengo, da un Sindico e da 10 persone del governo, quale elezione si fa due volte l'anno, una nel giorno di San Bartolomeo il 25 agosto e l'altra il 24 febbraio giorno di San Mattia per pubblico parlamento, dove intervengono li sudditi, 10 del governo e tutto il popolo elegendosi il Camerlengo suddetto il quale a suo arbitrio elegge una delle due persone nominate dall'Università per il Sindico; si cercano anche dalla detta Università due Razionali per la visura dei conti, due Esattori ed il Giurato, quale Camerlengo tiene autorità di chiamare a se tutti gli altri Camerlenghi delle terre del detto contado per beneficio del pubblico, il che si legge dall'apprezzo fatto nell'anno 1703 e dalla fede dell'Università consta che ogni sei mesi si fa l'elezione in pubblico consiglio.

Sta sottoposta per quanto spetta al spirituale all'Arcivescovo della città di Chieti e per il temporale alla regia Udienza di detta città come viene deposto dai testimoni esami nati su l'articolo 2 foglio 112, 113, 114, 115 e 116. Il Governatore s'eligge dal barone, al quale l'Università li corrisponde annui ducati 4 e grana 60 per la rinnovazione dei banni, atti e pasti come dallo stato di detta Università foglio 90.

Viene numerata la terra suddetta giusta l'ultima numerazione dei fuochi n 82 come costa dalla fede del patrimonio foglio 5 e fa anime n 445, cioè uomini di comunione 138, donne di comunione 131, uomini di confessione n 52, femmine di confessione 41, figliuoli n 45, figliuole n 38 come costa dalla fede dello Stato delle Anime foglio 28/30 e fa due soldati a piedi.

Ed in questo consiste la terra sudetta.

Qui possiamo lasciare il testo del nostro documento e tornare all'esame delle strutture urbane.

Delle cinque chiese urbane brevemente descritte nel documento esiste oggi soltanto quella arcipretale dedicata a S. Giovanni Battista che però ripropone forme diverse da quella medioevale demolita nella prima metà dell'Ottocento e ricostruita ampia sullo più stesso luogo. Di tre chiese non è possibile individuare con precisione il sito essendo state le loro aree incluse in sco allo stato di rudere altre destinate a case d'abitazione. Sulla scorta della toponomastica si può comunque asserire che la chiesa di S. Salvatore si ergeva nei pressi dell'attuale piazzetta omonima presso il quartiere Capo di Rocca mentre quelle dedicate a S. Nicola e a S. Domenico, poco distanti l'una dall'altra, prospettavano sulla strada che porta al Castello in zona prossima all'attuale Piazza Umberto I. C erto è il sito dell'antica chiesa di S. Francesco - tra le prime edificate dai francescani in Abruzzo (seconda metà del sec. XIII) - perché sopravvissuta, seppure allo stato di rudere, sino agli anni sessanta dei tempi nostri.

Da una perizia redatta nel 1829 sappiamo che la muratura d'ambito sul lato orientale presentava un fuori piombo di almeno cm. 17. Da una successiva perizia di restauro, redatta dall'ing. Luigi Dau nel gennaio 1850 a seguito di sopralluogo, si possono ricavare gli interventi previsti. Giova osservare che del fuori piombo rilevato nella precedente relazione non v'è traccia in quella in esame peraltro priva di grafici. Gli interventi preventivati riguardavano soprattutto: la rifazione del portone d'ingresso; la rifazione di alcune strutture lignee del tetto e la sostituzione degli embrici rotti dalla furia del vento; la costruzione di un cornicione al di sotto delle falde del tetto per evitare lo scorrimento delle acque piovane lungo le pareti; la rifazione di intonaci interni ed esterni degradati dall'umidità.

Da altri documenti d'archivio risulta che lavori di riparazione dei tetti e di risanamento delle murature, fortemente impregnate di umidità, furono eseguiti intorno al 1855.

I resti murari della piccola chiesa sono stati demoliti nel 1964 dopo molti anni di abbandono; eppure erano stati presi in consegna dal Ministero della Pubblica Istruzione sin dal 1894 proprio per conservarli.

Sebbene diversi studiosi - tra i quali Ignazio Carlo Gavini - avessero denunciata la condizione di estremo degrado e invocato azioni di tutela, la pervicace incuria degli uomini e le ingiurie del tempo hanno determinato la distruzione del monumento che pur costituiva una presenza peculiare nella storia di Monteodorisio e nel panorama artistico dell'architettura conventuale in Abruzzo.

L'insediamento francescano, nella custodia di Civitate, apparteneva alla provincia pugliese-molisana di S. Angelo costituita negli anni trenta del secolo XIII. La scelta della località appare guidata da quella strategia insediativa che orientava i francescani verso gli agglomerati più consistenti. Tra le antiche prepositure Monteodorisio risulta la più solidamente dotata della zona vastese: le sue decime arrivavano sino al valore di due once nel 1308 mentre il Quaternus ecclesiarum et monasteriorum civitatis et diocesi Theatinae del 1324 - 1325 elenca ben dieci chiese nel centro storico. Alla chiesa era annesso un piccolo monastero, soppresso nel 1654, destinato poi ad altri usi e infine abbandonato per lungo tempo sino al suo definitivo crollo nell'Ottocento.

La fabbrica religiosa prospettava sullo slargo antistante la seconda porta urbica, detta appunto di S. Francesco, anch'essa demolita nell'Ottocento. Una fotografia delle strutture murarie esterne e pochi frammenti del portale lapideo inducono a collocare la chiesa nel filone delle espressioni della scuola francescana che fiori nella vicina Lanciano e di accostarla per le caratteristiche semantiche, a quella demolita di S. Domenico a Chieti.

Di impianto rettangolare a navata unica (delle dimensioni interne di m. 8.30x24.90 ed altezza, all'imposta delle capriate, di m. 9.30 ca.) la fabbrica era conclusa da coro a pianta rettangolare (m. 8.30x6.20), voltato a crociera ogivale con costoloni in conci di pietra, inquadrato da arco acuto su pilastri. La parete di fondo era munita di un finestrone che, insieme al rosone e alla coppia di finestre oblunghe arquate delle pareti, illuminava l'invaso spaziale coperto da incavallature lignee a vista. Affiancavano l'altare maggiore, ai lati del coro, due cappelle sotto il titolo del Santissimo Rosario e di S. Antonio, quest'ultima assegnata ad una confraternita laicale (composta di trenta persone) che ottenne il "real beneplacito" in data 8 agosto 175816. Alle strutture parietali costituite da muratura di mattoni si contrapponeva il campanile, composto di pietrame squadrato, a canna quadrata,sito sulla destra della navata accanto al coro. Esso fu ricostruito - sull'area opposta a quella dove si innalzava il campanile duecentesco - sullo scorcio del Settecento con il contributo finanziario delle confraternite e dei fedeli.

Sul prospetto, privo di rivestimento, erano incastonate le uniche decorazioni in pietra della fabbrica: il portale a cornice ogivale - che inquadrava il portone ligneo di m. 1.98x2.90 - ed il rosone traforato da arcatelle accavallate. Di notevole fattura plastica il portale - come si può osservare dai pochi frammenti superstiti - appare delineato da una serie di modanature, degradanti verso la parete, esaltate sugli spigoli da due esili colonne con capitelli figurati. Il rosone, in asse col portale e sito quasi al limite del timpano della facciata, era contornato anch'esso da una cornice lapidea racchiusa entro una composizione costituita da una coppia di piccole colonne, poggiate su sculture raffiguranti leoni, sostenute da mensole. La cornice timpanata racchiudeva la parte superiore del rosone. Un'opera plastica che, seppur semplificata nel disegno, rimanda alla decorazione del grande oculo della chiesa di S. Agostino in Lanciano.

Un affresco sulla parete della navata, a sinistra dell'ingresso raffigurava S. Cristofaro. Altri aspetti degli interni è possibile ricavare da una lettera del 1885; leggiamo infatti che nella chiesa vi erano altari egregiamente intagliati in legno dorato e dipinti murali che avrebbero potuto interessare la Storia dell'Arte se si fosse giunti a rimuovere abilmente la calcina che li copriva.

Nella sua configurazione formale la piccola fabbrica presentava quindi le caratteristiche tipologiche adottate dalle fraterie francescane nel Duecento: navata unica della lunghezza pari a tre volte la dimensione della larghezza; coro ristretto ad un corpo rettangolare o quadrato; un lato a contatto del chiostro conventuale e gli altri disposti sulla via pubblica con muratura a vista e decorazione austera per essenzialità di forme e significati.

Sull'area della chiesa sorge oggi il palazzetto municipale.

Nel Settecento quest'ambito settentrionale del tessuto urbano era quindi caratterizzato dalle antiche chiese di S. Francesco e di S. Giovanni Battista, con i rispettivi campanili, oltreché dal palazzo baronale - composto di più ambienti, su due piani intorno a due cortili e aree ortilizie, comprendenti anche un vano destinato a carcere - e da un comprensorio di case della camera baronale allo stato di rudere. Tessuto urbano che, a cominciare dalla prima metà dell'Ottocento, è stato quasi completamente rinnovato a seguito della costruzione progressiva di case di abitazione intorno alla chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista che, demolita nel 1831, fu ricostruita nell'arco di circa trent'anni e ampliata su impianto a croce latina e tre navate.


LA CANZONE DEL TELAIO

 Il telaio era un arnese di lavoro femminile assai diffuso in tutti i paesi d'Abruzzo, e molte erano le ragazze che con esso preparavano il corredo nuziale.    Il lavoro al telaio è stato in passato fonte di una poesia popolare in cui ancora   vive il senso di un'eredità storica e di certe esperienze e atteggiamenti ricchi di valori sentimentali: proprio al telaio è legata la questione dei rapporti tra sonetto e strambotto.  Difatti, il tema dell'innamorato che vuol fare un telaio all'amata come dono di nozze, è assai antico e diffuso in tutte le regioni d'Italia e dimostra, come sostiene il Toschi, che “anche il sonetto, nonostante la sua preziosità, è entrato nella tradizione orale perdendo alcuni dei tratti di maggiore artificio, ma rimanendo ben riconoscibile nelle sue linee essenziali”.

 Amore e lavoro sono motivi che si intrecciano nei vari canti che abbiamo raccolto.

In questa canzone di Monteodorisio, nel Vastese, il giovane innamorato promette che tra marzo e aprile segherà nella vigna un noce e un castagno per farne un telaio alla sua Mariuccia

 

Mo' se ne vène Natale sante,

s'ariverisce tutte le cummare.

Jame, cummara me', si vù miní,

la vigna mé sta 'ncoppe a la muntagne:

ci sta du' arbre di noce e di castagne,

tra marze e aprile li vujje sicà

pe' fa' lu telarucce a Mariucce:

la cassa d'aure [d'oro], li licce di seta

l'andruarella di noce moscata;

noce moscata e noce moscatelle

quest'è la strade de le donne belle

 

Nello strambotto, che abbiamo trovato “contaminato “con un canto amebeo[1], il motivo del telaio è introdotto in una atmosfera di solennità sacra, il Natale, quando “s'ariverisce tutte le cummare (interessante nota di costume). Ed è alla comare che l'innamorato promette, e nella circostanza la promessa assume quasi il valore di un giuramento, che tra marzo e aprile segherà nella vigna a monte il noce e il castagno per fare il telaio a Mariuccia; e anche qui c'è il tocco di colore locale. Nella ripresa la strada, che in altri strambotti è detta profumata, è contraddistinta dalla presenza delle “donne belle“, presenza che vi porta una nota di gentilezza, il profumo dell'onestà.

Il canto, mi è stato riferito dall'informatrice, era assai in voga a Monteodorisio fino a pochi anni fa, e l'ho trascritto perché mi è sembrato uno fra i più belli dei canti popolari abruzzesi, oltre che per l'originalità del disegno strofico e la vivacità delle immagini, per la spontaneità e la delicatezza dei sentimenti, ispirato com'è ad una semplice e ingenua vicenda d'amore paesano.



[1] Di componimento poetico in cui si alternano domanda e risposta.

Emiliano Giancristofaro

IL CANTO DI MONTEODORISIO

 Quanti sono ancora i canti popolari abruzzesi inediti o ignorati! Spesso, per caso fortuito, ci si imbatte in qualche canzone, o fiaba o racconto, di singolare poeticità, conservati nella tradizione orale del popolo, specialmente nei paesi rurali del Molise e dell'Abruzzo montano: sono componimenti sgorgati dal cuore di anonimi poeti popolari, che rievocano fatti d'amore e di morte, stornelli e canti legati alla fatica quotidiana nei campi, agli avvenimenti più comuni della vita umana.

 I canti d'amore, poi, hanno sempre occupato un posto notevole nella letteratura popolare abruzzese, ed accanto a strofe di amore selvaggio e triste si incontrano, sfogliando le raccolte dei maggiori folkloristi, canzoni di particolare dolcezza in cui i sentimenti più delicati e semplici appaiono mescolati a motivi di civetteria femminile, a dispetti d'amore e a tutti quegli atteggiamenti e stati d'animo congiunti alle vicende dei giovani innamorati.

 Proprio per caso fortuito a Monteodorisio, nel Vastese, ho avuto modo di ascoltare alcune strofette, purtroppo non ricordate alla perfezione dalla anziana donna che ne informava, di un bellissimo canto d'amore che non ho trovato in nessuna delle raccolte abruzzesi consultate. In esso un giovane del paese tenta i suoi primi approcci amorosi con una fanciulla a cui non ha ancora mandato « l'ambasciatore » per chiederla in sposa; tra i due innamorati, anche se la passione è ardente, non c'è stato alcun segno di « compromissione », come il regalo del fazzoletto della ragazza, secondo un'antica usanza, o il bacio per la strada, secondo un vecchio sistema di conquista femminile per vim. Invano il giovane, nel canto, cerca di persuadere la fanciulla ad un incontro, suggerendole le scuse più ovvie: questa non si mostra punto cedevole alle profferte d'amore del suo spasimante, ma vuole proposte concrete, vuole insomma « l'ambasciatore», che alla fine arriva nella persona di una commare che scioglie tutte le incertezze di Mariuccia carciratella, con una richiesta ufficiale e anche liberatrice (t'aricacce). Ed ecco il testo del canto d'amore di Monteodorisio:

 

Ched'à 'ssa ggiuvenétte che si lamente?

Vò lu 'mmasciatore ore e mumente.

Lu 'mmasciatore vò essere arialate

lu fazzulette a chi ci l'ha mannate.

 

Carciratella mé, carciratella,

dimore la verità, ca t'aricacce.

Còma pòzze fa' pe' darete nu vasce?

Pije la palelle e va' pe' foche.

Si t'addummanne màmmete: « sȋ ntrittinute »,

lu vicinate n'ha tinute lu foche;

si z'arcunosce lu vasce ca ti so' date,

dije ca è state l'arie de lu foche.

Ucchie accinnarille che sempr'accinne,

vû fa' l'amore nchi me, picchè m'ci minne?

I' nin ci manne, ca sȋ piccirille,

ancora li cumpisce li quinicianne.

 

Quinice li so' fatte e sedici pure,

pije lu 'mmasciatore e ci li manne.

 

Ucchie nire che mi so’  ‘ntrate a lu core:

come la subbre che trapane la sole,

trapane la sole, trapane la sulette

cuscì trapane l'ucchie de 'sta ggiuvinétte.

Mo se ne vene la Natale santa,

s'ariverisce tutte le cummare.

Jame, cummara me', si vù mini,

la vigna mé sta 'ncoppe a la muntagne:

ci sta du' arbre di noce e di castagne,

tra marze e aprile li vujje sicà

pe' fa' lu telarucce a Mariucce:

la cassa d'aure e li licce di seta

l'andruarella di noce moscata;

noce moscata e noce moscatelle

quest'è la strade de le donne bbelle.

 Come si vede, nei primi quattro versi a rime baciate, il poeta, come rappresentante della tradizione popolare, immagina una fanciulla che si lamenta perché vuole « l'ambasciatore » per acconsentire all'amore di un giovane; ma l'ambasciatore, dice di rimando il poeta, vuole che gli sia dato il fazzoletto da portare a chi l'ha mandato. Ecco si fa avanti l'innamorato a chiedere un bacio all'amata. Seguono due coppie di distici a botta e risposta e una ripresa. Con la quartina a rime baciate (Ucchie nire, ecc.) si concludono i tentativi del giovane, che è sempre più preso da passione d'amore per la fanciulla. Ma niente da fare, Mariuccia ci sta solo con l'impegno matrimoniale, ed egli cede finalmente e, a garantire la serietà delle sue intenzioni invita la « cummare », l'ambasciatrice, ad andare alla sua vigna sulla montagna dove, tra marzo e aprile, segherà il noce e il castagno per costruire il telaio (lu telarucce) per Mariucce.

 A questo punto, però, si pone il problema dell'ultima parte del canto che, indubbiamente, è «contaminata» con la prima, ed è una variante del famoso strambotto sul telaio. Il Toschi in un importante studio, pubblicando uno strambotto raccolto a Ofena, in Abruzzo, dalla viva voce popolare, affronta di nuovo la questione precedentemente esaminata da Severino Ferrari, dal D'Ancona e poi dal Sapegno, « per vedere se riusciamo a definire con maggiore approssimazione i rapporti che intercorrono fra il sonetto, lo strambotto quattrocentesco e gli strambotti raccolti dalla viva voce dei volghi ». Il tema, difatti, dell'innamorato che vuol fare un telaio all'amata, probabilmente come dono di nozze, è assai antico e lo ritroviamo in un « sonetto caudato e in un " rispetto ", trascritti in codici che risalgono a circa la metà del Quattrocento ma che contengono composizioni le quali possono essere riportate agli ultimi anni del sec. XIV o ai primi del sec. XV ». Il Toschi, quindi, dopo aver riportato lo strambotto di Ofena, il cui tema è appunto il proposito di un giovane di fare fu telare a la mia bella, lo analizza e lo pone in relazione ad analoghi componimenti della Sicilia, Calabria, Lu­cania, Puglia, Campania, Molise, Abruzzo (un canto alterato di Lanciano), Marche, Umbria e Toscana, e dal confronto tra il sonetto quattrocentesco e gli strambotti raccolti dalla viva voce popolare, e in particolare, lo stram­botto di Ofena e i riscontri con la versione di un analogo canto di Lanciano, dimostra i possibili rapporti tra sonetto e strambotto e deduce che « anche il sonetto, nonostante la sua preziosità, è entrato nella tradizione orale per­dendo alcuni dei tratti di maggiore artificio, ma rimanendo ben riconosci­bile nelle sue linee essenziali» .

 Ebbene il canto di Monteodorisio sembra appunto portare altra confer­ma alla tesi del rapporto tra sonetto e strambotto; esso, tuttavia, pur ri­prendendo e « contaminando » motivi che ricorrono in canti e strambotti di altre regioni, si presenta come una creazione originale, oltre che per la struttura strofica perché ritrae al vivo ambiente, costumi e spirito della gente del paese. Già nei primi quattro versi il motivo della richiesta dell'amata è caratterizzato dall'intervento dell'ambasciatore e dal dono del fazzoletto come pegno. Nel canto amebèo che segue, (questo sì, tutto originale), fin al primo verso, col vocativo ripetuto appassionatamente Carciratella me', carciratella, siamo portati nell'ambiente rusticano, dove la ragazza vive chiusa in casa come in carcere. E l'espediente che l'innamorato le suggerisce per un incontro e le scuse che le fornisce per rispondere agli eventuali rimproveri della madre sono di una popolaresca ingegnosità e di una espressività schiettamente poetica: se z'arcunosce lu vasce ca ti so' date / dije ca è state l'arie de lu foche. Anche il motivo degli occhi « che trapanano il cuore come la subébia trapana la suola », non è nuovo, ma assume un tono di passione fatto più vivo dall'ostinazione dell'amata.

 Ed ecco infine lo strambotto del telaio che « contamina » il canto ame­bèo. Notiamo subito che il motivo è introdotto in un'atmosfera di solennità sacra, il Natale, quando s'ariverisce tutte le cummare (interessante nota di costume). Ed è alla comare che l'innamorato promette, e nella circostanza la promessa assume quasi il valore di un giuramento, che tra marzo e aprile segherà nella vigna a monte il noce e il castagno per fare il telaio a Mariuccia; e anche qui c'è il tocco di colore locale. Nella ripresa la strada che in altri strambotti è detta profumata, è caratterizzata dalla presenza delle « donne belle », presenza che vi porta una nota di gentilezza, il profumo dell'onestà.

 Il canto, mi è stato riferito dall'informatrice, era assai in voga a Mon­teodorisio fino a pochi anni fa, e mi è sembrato uno fra i più belli dei tanti canti popolari abruzzesi, oltre che per l'originalità del disegno strofico e la vivacità del dialogato, per la spontaneità e la delicatezza dei sentimenti e per una certa civetteria femminile, ispirato com'è ad una semplice e inge­nua vicenda d'amore paesano.

EMILIANO GIANCRISTOFARO

25 Marzo: DANTEDÌ Giornata Nazionale dedicata a Dante

Sordello da Goito, nato a Goito tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, poeta e trovatore italiano in lingua provenzale, al servizio di Carlo I°d'Angiò, conte di Provenza, durante la spedizione di Carlo in Italia, che venne fatto prigioniero e ristretto nelle carceri di Novara. Nel 1226, per sollecitazione di Papa Clemente IV fu riscattato dal re angioino ed ottenne, nel 1269, quale ricompensa per i servigi prestati al Re, cinque castelli in Abruzzo, tra cui quello della Contea di Monteodorisio. Sordello da Goito è ricordato da Dante Alighieri, nella Divina Commedia - Purgatorio - CantoVI.









Ma vedi là un’anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne ’nsegnerà la via più tosta".

Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!

Ella non ci dicëa alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,

ma di nostro paese e de la vita
ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava
"Mantüa..." e l’ombra, tutta in sé romita,

surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: "O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!"; e l’un l’altro abbracciava.


Invettiva contro l'Italia

Dante a questo punto prorompe in una violenta invettiva contro l'Italia, definita sede del dolore e nave senza timoniere in una tempesta, non più signora delle province dell'Impero romano ma bordello: l'anima di Sordello è stata prontissima a salutare Virgilio solo perché ha saputo che è della sua stessa terra, mentre i cittadini italiani in vita si fanno guerra, anche quelli che abitano nello stesso Comune.


Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!

Auguri di buon compleanno a don Nicola

Auguri al nostro parroco emerito: il Signore illuminerà sempre la sua strada.