vocabolario del dialetto storico štrèṷsə

giovedì 14 dicembre 2023

Il racconto di Nausica Manzi SOL INVICTUS

 




Il racconto di Nausica Manzi SOL INVICTUS é stato scelto dalla VGS LIBRI per essere inserito nella raccolta di racconti ispirati al Natale " STORIE SOTTO LA NEVE" un dono d’amore e ricordo di coraggio e di fragilità per cullare la magia di questo periodo. Inoltre nelle recensioni che stanno arrivando da ogni parte d’Italia è il racconto di Nausica ad essere citato e menzionato...una carezza sul cuore che la scrittrice è in grado di trasmettere a tutti.

" Il Sol Invictus è l’amore che riattacca ogni essere umano all’esistenza, ogni volta, un amore che a volte si nasconde, che a volte fa male, o manca, ma che c’è sempre e si fa sentire forte, basta fidarsi e credere in lui, sempre.[da Sol Invictus]

Quattordici racconti, dall’animo natalizio, che vi terranno compagnia nelle fredde sere di dicembre, davanti a una tazza di cioccolata calda o al dolce tipico delle feste, accoccolati sulla vostra poltrona preferita o già a letto, nell’attesa del sonno che tarda ad arrivare Sono storie che arrivano dritte al cuore, storie di vita che affrontano il tema della trasformazione attraverso il coraggio e la speranza; coraggio e speranza che, in questi nostri tempi un po’ bui e molto confusi, sembrano nascosti, scomparsi quasi. Eppure, barlumi di luce nascono ogni giorno, dentro un gesto di gentilezza, un sorriso inaspettato e la scoperta di sé: emozioni condivise attorno alle quali i nostri Autori si sono cimentati per raccontarci chi siamo, chi eravamo e chi potremmo ancora essere. Alcuni di questi loro racconti vi faranno sorridere, altri commuovere, altri ancora vi stringeranno il cuore in una morsa fredda e dolorosa; ma tutti ci narrano di questo periodo magico dell’anno, meta e mito di aspettative, entusiasmi, desideri. Perché, in fondo, lo spirito del Natale è tutto qui: dentro un abbraccio caldo che sa di promesse e fiducia, di famiglia e amicizia.

lunedì 6 novembre 2023

OTTANTA ANNI FA, IL 6 NOVEMBRE 1943, L’ESERCITO ALLEATO FACEVA IL SUO INGRESSO A MONTEODORISIO: Un eroe dimenticato



È ora di finirla una buona volta per sempre di chiamare eroi coloro che, disseminando stragi di giovani vite, aggiogano al carro delle ambizioni personali o nazionali terre e popolazioni. Costoro sono massacratori da condannare. Eroe invece, è colui il quale, mettendo in pericolo la propria vita, salva gli altri, o li aiuta a progredire nel bene.
Uno di questi eroi genuini è Giuseppe Monaco di anni 91, abitante in via Perdicasso Barrile, n. 11, a Monteodorisio(Chieti). Che cosa ha fatto?
Si era nel turbinoso tempo della fase disastrosa della, già perduta da noi, seconda guerra mondiale. I tedeschi in rotta cedevano mal volentieri palmo per palmo il terreno occupato. Gli alleati li seguivano per snidarli da tutti i paesi e campagne. Ed ogni angolo della nostra Patria (sia per mano degli uni che degli altri) veniva ridotto in un campo di battaglia; e, poi, abbandonato come un cumulo di macerie fumicanti.
E tanti tanti morti ovunque! Qualcosa di simile stava per accadere a Monteodorisio. Già tre carri armati alleati salendo da Cupello si erano piazzati su a Monte le Forche pronti a far fuoco sul paese. Si sa infatti che gli alleati consideravano obiettivo militare qualsiasi luogo ove ci fosse stato anche un solo tedesco.
E i tedeschi c'erano stati a Monteodorisio. Erano, però, già partiti. Non c'erano più. Ma chi glielo diceva a quelli? La mitraglia cominciò a crepitare furiosamente ed in mezzo all'infuriar delle pallottole arroventate la rauca voce del cannone vomitava ogni tanto boccate di fuoco e di morte. A Monteodorisio stava per toccare la stessa sorte di tanti altri paesi. Fu allora che Giuseppe Monaco - disprezzando i gravi pericoli a cui sapeva di andare incontro - propose di salire su a Monte le Forche per informare gli alleati che di tedeschi in paese non ce ne era nemmeno uno. Prese un bastone molto lungo; vi legò in alto un fasciatore: formando così la tradizionale bandiera bianca...che chiede o promette pace. Con questa bandiera, issata al disopra della sua alta persona, uscì di casa, uscì di paese e si avviò verso la Collina. Il nemico lo avvistò. E raffiche di mitraglia lo sorvolano a più riprese. Egli si gettava bocconi a terra riprendeva la sua bandiera la innalzava nuovamente e faceva altri passi avanti.
Ancora prudenziali raffiche di mitraglia. E poi la voce del megafono fece un'interrogazione.
Ed egli a tutta voce rispose: «Vengo a fare un'ammasciata». Si accostò di più alzando con tutte e due le mani la bandiera di pace. Scese un soldato dal carro e prese a gridare in inglese.
Giuseppe non capiva; e rispondeva in dialetto, meno, comprensibile del sancrito ubique terrarum.  Allora il soldato fece cenno al radiotelegrafista perché avesse chiamato l'interprete, che stava nelle immediate retrovie.
Quello salì al Monte le Forche, e Giuseppe spiegò che di «Germanesi» in paese non ve ne era restato nemmeno uno. Si erano ritirati precipitosamente per la via di S. Bernardino giù verso il Sinello.  Quelli si mostravano scettici; ed, accennando al palazzo dei Suriani, asserivano che era pieno di tedeschi. Qualche malevole soffiata? O l'imponenza della bella costruzione fra i nani «pinciari» aveva fatto argomentare un fortilizio nemico fra quelle solide mura? «Ai posteri l'ardua sentenza»! 
Certo è che già un obice aveva smussato un angolo. Ed è certo ancora che, se avessero seguitato a cannoneggiare quel palazzo, avrebbero fatto un'enorme carneficina; giacché proprio sotto le valide arcate di esso c'era un affollatissimo rifugio.
Giuseppe, dunque, assicurò quei soldati della scomparsa dal paese di ogni traccia tedesca e per garanzia di verità offrì se stesso come ostaggio al nemico del momento.
Fu accettato. Cessò il fuoco. E così salvò il paese.

lunedì 23 ottobre 2023

Rastrellamenti 22 ottobre 1943

 



Con lo sbarco a Termoli e la resistenza tedesca sul Sangro, Vasto si trovò in mezzo e ne patì tutte le conseguenze: bombardamenti degli Alleati, mine e saccheggi delle squadre dei tedeschi guastatori. Fu ordinato l’esodo della popolazione ed io mandai la famiglia a Furci, restando solo a casa, dove cominciò il saccheggio sotto i miei occhi.
Ma ecco anche l’ordine per gli uomini validi al lavoro, dopo l’occupazione dei due edifici scolastici trasformati in ospedale tedesco. Fuggii nel vicino paese natio, dopo aver visto la sorte del giudice e di un mio nipote catturati e tenuti in ostaggio con la minaccia di fucilazione.
Passai la notte in casa di mia sorella. Ma al mattino, tra le sei e le sette, circondato il paese, i tedeschi presero tutti gli uomini validi (176 mi pare) e li caricarono su dei camions.
Io fui preso ancora a letto e non mi diedero il tempo nemmeno di allacciare le scarpe. Nella confusione, riuscii ad eludere la vigilanza ed a nascondermi in una legnaia di una mia cugina. Ma dopo un’ora, il bando dei tedeschi che minacciava di morte chi era sfuggito alla cattura, terrorizzò le mie parenti che vennero da me a supplicarmi di partire temendo la fucilazione. E partii anch’io. Giungemmo la sera a Castel di Sangro, alloggiandoci nei locali delle Scuole, una mezz’ora dopo ci fecero sloggiare e via per Rocca Cinquemiglia. Faceva freddo ed umido. Io capitai con una cinquantina di compaesani, in un grande stallone con molta paglia. Fianco a fianco, per riscaldarci, ci coprimmo anche la testa con la paglia. Ma chi poté dormire, in quelle condizioni e, per giunta, senza toccare cibo? Il mio pensiero correva alla mia famiglia e ai due figli piccoli ignari della mia sorte, e al secondogenito del primo letto che si trovava in provincia di Pescara, presso i nonni materni, alla casa abbandonata, alla mercé di tutti. Mia moglie era partita con qualche valigia di roba, io con il solo vestiario che avevo addosso.
Avevo 49 anni e dovevo sottopormi a disagi, privazioni e lavori pesantissimi. Infatti, il mattino, ben presto, sveglia e partenza per la montagna vicina. I primi giorni dovevamo trasportare, dalla valle, bidoni di acqua o travi pesantissime. Poi, con una vanga o un piccone o una pala dovevamo scavare piazzole per mitragliatrici, a gruppetti isolati. Patate e pane scuro. Ma dopo qualche giorno, la sera io, un mio nipote (studente in medicina che si spacciò per medico) e un mio cugino potevamo consumare qualcosa che « il medico » riusciva a procurarsi clandestinamente.
Ma io e qualche altro non potevamo resistere a lungo a quei lavori pesanti e passammo una visita medica. Io avevo una febbre reumatica. Fummo prescelti in 16 e messi in nota per essere rinviati a casa. La sera seguente l’interprete ci raduna e legge gli otto nomi di quelli che soli, dopo la seconda cernita, avevano avuto la concessione della libertà. Giunse alla chiamata del settimo ed io non ero tra quelli. Avevo perduto ogni speranza, quando pronunciò, storpiato, l’ultimo nome (Trosmonti, Rosmondi), gridai: « presente! » Ed ebbi un mezzo collasso. Ci dissero che saremmo stati liberi di partire il mattino seguente. Intanto durante la notte riuscirono a fuggire tre o quattro compaesani intraprendenti e insofferenti. Il mattino, tranne uno veramente in condizioni pietose, fummo tutti riportati al lavoro.
Pensammo che la fuga degli amici aveva compromesso la nostra libertà.
Era domenica. Una pioggerella sottile c’infradiciava le ossa. Io avevo una pala per spalare il terriccio picconato da un compagno, ma non avevo neanche la possibilità di mettermi in piedi per riposare qualche minuto, perché i reni mi davano dolori lancinanti. Ad un certo momento domandammo quanto tempo c’era ancora per mezzogiorno, ora in cui dovevamo smettere. L’austriaco di sorveglianza, con stizza c’indicò l’orologio e con un gesto ci fece capire che mancava ancora mezz’ora.
A mezzogiorno si smette e si torna agli alloggiamenti, ove l’interprete ci annuncia che eravamo liberi di andarcene, consegnandoci una velina con uno scritto in tedesco. « Via, via, prima di un altro contr’ordine » dissi io e mi misi a capo del gruppo, precipitando verso Castel di Sangro. Dopo qualche chilometro, dovemmo attendere il malato grave che si trascinava a stento.
Comincia la pioggia fitta, prendiamo la rotabile, raggiungiamo Castel di Sangro, ma io insisto per la continuazione del viaggio e puntiamo su Ateleta.
Ma la stanchezza, la pioggia e il malato grave (Marcellino Di Giacomo, un giovane sarto che sembrava S. Luigi) ci fecero giungere all’ultima ora del pomeriggio, con la ricerca di un casolare per passarvi la notte. Ed ecco l’uomo della Provvidenza; passa un uomo in senso inverso, lo fermo, gli domando se ci può indicare un casolare vicino e mi risponde ch’era li a qualche centinaio di metri, il suo. Gli chiediamo ospitalità per la notte. «Impossibile».
- Diteci quanto volete.
- Impossibile, devo andare a Castel di Sangro - e si allontana in fretta, dietro di noi.
- Quanto possiamo racimolare tra di noi? - Domandai ai miei compagni.
Io possedevo ancora 30 lire e 50 tutti gli altri. Con le ottanta lire in mano rincorsi quell’uomo e lo supplicai di prendersi quella sommetta ch’era tutto ciò che possedevamo. Finalmente accettò, tornò sui suoi passi e ci fece entrare nel casolare ch’era uno stallone semivuoto. In un angolo vi era un abbozzo di un focolare, dove a turno, quattro alla volta, dopo aver acceso a stento il fuoco con ceppi bagnati, l’abbiamo mantenuto vivo sino all’alba. Rotti e morti di fame, riprendemmo la via maestra per Ateleta. Alle prime case, entrammo dove una donnetta, sulla soglia, curiosava. Fece un po’ di resistenza, ma io la rassicurai subito dicendo che desideravamo solo qualcosa per il nostro stomaco.
- Non ho nulla, mi dispiace, ma non ho proprio nulla...
Ma vedevo un bel mucchietto di patate in un angolo e gliene chiesi. I miei compagni si misero a ridere, ma io insistetti perché ognuno si riempisse le tasche. E proseguimmo. Giunti alle pendici della montagna di Pesco Pennataro, sulla cui cima, a strapiombo, si vedevano alcune case, io dissi che dovevamo fare lo sforzo di giungere lassù e sostarvi per la notte. La strada impervia era percorsa da numerosi mezzi tedeschi. Ne fermammo parecchi perché prendessero almeno Marcellino, ma invano. Si presentava la velina indecifrabile, come passaporto, ma tutto inutilmente, con rifiuti sprezzanti.
Giungemmo lassù quand’era scuro (faceva notte presto) e poi, a due a due, dovevamo salire quella montagna trascinando Marcellino e riposando ogni cinquanta passi! ...
Alla prima casa che ci si presenta bussiamo ripetutamente. Apre la porta, col naso in uno spiraglio, una donna. Le chiediamo ricovero per riposare «qualche ora» ma si rifiuta. Insistenze e rifiuti. Finalmente, con dolce pressione entriamo. Un bel focolare, con tre sedie e un banchetto, ci ristora. Un paradiso ci sembrava quell’angolo, ma la fame si risvegliò prepotente.
- Non ho nulla, non ho nulla, i tedeschi si son presi tutto e tutti, compreso mio marito.
- Un caldaio d’acqua, dateci un caldaio d’acqua per farci bollire le patate che abbiamo - feci io.
E quelle patate cotte, con un po’ di sale, furono una manna del Cielo.
- Ora è tardi, dovete andarvene.
E chi si muoveva? E dove potevamo andare, sfiniti e morti di sonno, nel buio della notte umida e fredda?
- Voi potete andare a dormire tranquillamente. Noi siamo buona gente, io un Direttore di scuole e rispondo per tutti questi miei cari e buoni compaesani. C’è qui poi uno seriamente ammalato. Se vostro marito si trovasse nelle stesse condizioni, che direbbe se lo scacciassero come vorreste fare voi?
E restammo intorno al focolare, dormicchiando sulle poche sedie o per terra.
Al mattino, altra tappa per Castiglione Messer Marino, sede della mia seconda Direzione didattica. Quando, prima del tramonto, giungemmo alle case di Castiglione, in mezzo ai tedeschi in trambusto per il fronte in movimento per l’avanzata degli Alleati giunti sul Trigno, sotto Celenza, entrammo nella piccola chiesetta della Madonna delle Grazie, che ci ricordava il Santuario del nostro Paese dedicato alla stessa Madonna, per ringranziarla di essere ormai giunti a salvamento.
Poi mi diressi alla casa della mia Segretaria di Direzione.
Bussai più volte. Si aprì uno spiraglio. La Signorina e la sorella volevano subito sbattermi la porta in faccia.
- Non mi riconoscete?
- No, no. Che cosa volete?
- Signorina, sono il vostro Direttore e questi sono miei compaesani; fateci entrare.
- Ah Dio mio! Siete proprio voi? Come potevo riconoscervi nelle condizioni in cui vi siete ridotto?
Convenevoli, domande, qualche ristoro. Poi mandò a chiamare il Sindaco, il simpatico, buono, generoso avvocato Don Emilio Lalli, che venne immediatamente e per prima cosa disse: «Qui ci vuole un barbiere». Avevamo infatti una barba lunga da far paura. Provvide a sistemarci in comode stanze qui e lì nel paese, con l’ingiunzione di restare sino all’arrivo degli Alleati che erano ormai lì a combattere a pochi chilometri.
Ma io e gli altri avevamo troppo vivo desiderio di raggiungere Furci, ove era sfollata quasi tutta la mia famiglia e opposi un cortese reciso rifiuto, ringraziandolo con profonda gratitudine, per la sua cortesia e la sua larga ospitalità.
E il mattino successivo ci avventurammo in mezzo al caos dei combattimenti che si svolgevano nella vallata del Trigno.
Giungemmo a Furci verso le 15, un’ora prima che i Negri, al seguito degli Inglesi, vi entrassero. Era il 4 novembre; 3° compleanno del mio Vittorio.
Chi può descrivere la scena dell’incontro con mia moglie e i miei due ragazzi? Mia moglie non sapeva nulla di quanto mi era accaduto e credeva che provenissi da Vasto!
Dopo la violenta comune emozione con crisi di pianto, io ringraziai ancora una volta il Cielo per essermi ricongiunto con i miei cari che stavano bene. Il paese era stato bombardato e c’erano stati distruzione e morti, ma ancora per lunghi mesi il Fronte fu fermo lì e dovemmo subire allarmi e bombardamenti e disagi, pericoli e miserie.
In quella grande casa di mio cognato si era rifugiato, con i miei, anche un cugino di mia moglie, antifascista che pare avesse una radio clandestina, facendo tremare tutti per tema venisse scoperto. Ma lui ch’era stato tanti anni in America e parlava bene l’inglese e la moglie che conosceva perfettamente il tedesco, se la cavarono magnificamente con i primi e con gli altri occupanti, con una disinvoltura addirittura teatrale.
Nel paese era venuta a mancare l’acqua. Bisognava andare ad approvvigionarsi in una sorgente a un chilometro circa, sfidando i tiri tedeschi.
Mia moglie, preoccupata per i piccoli, cercava di nascondere una bottiglia sotto il letto...
Ma non passò molto tempo e il nostro piccolo ammala di paratifo. La disperazione di mia moglie giunge al colmo.
Per fortuna nostra, nella casa attigua c’era un vecchio medico con­dotto che non solo prese a cuore il malatino, ma addirittura si pianta­va ore ed ore vicino al letto e lo distraeva in cento modi. Ma non vi erano medicine adatte nella piccola ed unica farmacia, sfornita, del paese. In due settimane fui costretto a fare due viaggi, a Vasto, per complessivi 52 km. per volta, in mezzo a montagne di munizioni di arti­glieria dei tedeschi che occupavano ancora quella rotabile, col pericolo di essere ripreso e finire chissà dove!
Presto cominciò per Vittorio il tormento della fame, che noi ingannavamo per ore ed ore con « Ecco, fra cinque minuti sarà pronta la minestrina. Mamma sta facendo bollire la pastina. Ancora un pochino e vedrai»...
Era uno strazio per lui e per noi. Ma come Dio volle, guarì. Intanto mio cognato andò a finire nel campo di concentramento di Padula, lui che non aveva fatto mai male ad una mosca e non aveva mai ricoperto cariche fasciste.
Poi con la liberazione di Vasto, gli Inglesi un mattino, sotto un’ac­qua torrenziale, caricano tutti gli sfollati su dei camions e ci riportano a casa. A casa! giunti laggiù, proprio sotto la nostra casa, e sotto ancora l’acquazzone, troviamo che tutto l’edificio era occupato da un comando in­glese. Non mi hanno fatto nemmeno entrare per vedere se c’era rimasto qualcosa.
E come si fa? Corro al Municipio: vi era una confusione inde­scrivibile. Nessuno mi voleva dar retta. Finalmente strappo un ordine: una carrozza, la prima a mia disposizione per andare dove volevo. Mi decido per il mio vicino paese natio e ci ricoveriamo nella casa in cui abitava mia sorella vedova con la figlia. Uno spezzone precedentemente aveva ammazzato un pover’uomo affacciato alla finestra nella casa a fian­co e rotto il tetto della nostra, per cui, durante la pioggia, penetrava l’ac­qua in camera da letto. Ma era pur sempre un buon ricovero.
E lì altri stenti, privazioni, difficoltà d’ogni genere.
Nel mio paese vi era di stanza un battaglione d’Inglesi con trup­pe Sud-Africane. Conobbi un giovane militare bello e intelligentissimo che, in cambio di qualcosa da parte nostra, ci dava ogni tanto un po’ di cioccolata, un po’ di formaggio e dei datteri, qualche scatola di si­garette e qualche pezzo di sapone. Aveva imparato a parlare la nostra. lingua in breve tempo e ci comprendeva e si esprimeva in un modo sor­prendente.
Qualche volta mi portava a Vasto con la sua jeep ed io andavo in Municipio per rientrare in sede, ma inutilmente. A un certo momento mi consigliarono di non comparire più perché mi si cercava per man­darmi al campo di concentramento!
In attesa della liberazione di Chieti, mentre il fronte si era sposta­to sul Sangro, con le gravi battaglie e le terribili distruzioni di tanti paesi, come Ortona e Francavilla a mare, si era istallato a Vasto un Prefetto che voleva me e i miei maestri a sua disposizione, anche per formare un abbozzo di Provveditorato! Pazzia addirittura. Riuscii solo a far pagare gli stipendi agl’insegnanti, mentre i due edifici scolastici era­no ancora occupati dall’ospedale inglese.
Per fortuna, dopo qualche mese giunge la notizia della liberazio­ne di Chieti, ma prima di ottenere il rientro della mia famiglia nella ca­sa dove abitavo, essa fu fatta occupare da un usciere di Tribunale sfollato con numerosa famiglia. Ottenni finalmente un piccolo appartamen­to di due vani e servizi. Una mia bidella, durante i saccheggi della mia
casa, prima dai tedeschi, poi dagl’inglesi e infine dai «civili», perché quello che non avevano fatto i barbari fecero i barberini, mi aveva sal­vato 4 materassi di lana e qualche lenzuolo, portandoseli a casa a costo di essere fucilata dai tedeschi. Furono sloggiate anche le scuole.
Mi ritrovai con mio figlio morto, la casa saccheggiata, la scuola distrutta! Del mio secondogenito nessuna notizia.
Ero diventato l’ombra di me stesso.

lunedì 9 ottobre 2023

San Francesco

 Particolarmente grave è la perdita della chiesa di Monteodorisio (i resti della chiesa sono stati demoliti nel 1964 per far posto al brutto edificio del Comune, alcuni frammenti del portale e del rosone sono accatastati in un locale di deposito, in attesa di chissà quale sistemazione) , della quale fino a pochi decenni fa si conservava l'involucro esterno, squadrata mole laterizia, ancora perfettamente restaurabile; ora l'aspetto dell'edificio può essere ricostruito da una vecchia foto, dalla sintetica descrizione del Gavini - fortunatamente corredata da qualche misura - e da pochi altri elementi documentari.



La chiesa era a navata unica, coperta a tetto, con coro quadrato voltato a crociera cui si accedeva attraverso un arco sestiacuto; misurava m. 8.30 x 24.70, mantenendo quindi nell'aula il canonico rapporto di 1 : 3 fra larghezza e lunghezza.
Sulla facciata si aprivano il portale ogivale, versione semplificata del tipo a larga diffusione, ed il rosone spostato verso il culmine, sormontato da un caratteristico timpano poggiante su colonnine con leoni stilofori in funzione di mensole.
All'interno vi erano oltre all'altar maggiore due altari laterali, a edicola, uno dei quali sicuramente barocco; sulla controfaccia un affresco raffigurante san Cristoforo. "dall'apprezzo "v'è l'altare maggiore isolato, a destra ed a sinistra vi sono due cappelle con cone architettate. La prima sotto il titolo del SS.mo Rosario e la seconda di sant'Antonio, in dove sia addetta la Confraternita di 30 fratelli (...) la medesima non ha fondo, per essere da poco tempo formata." 


Assieme alla chiesa è stata ottusamente demolita la torre campanaria, poderosa costruzione a pianta quadra, in muratura mista di mattoni e grandi conci regolari di pietra.

Crolla a Monteodorisio un'antica chiesa provocando danni ad un edificio vicino 20 aprile 1960

 



PER UN VERO MIRACOLO NON SI SONO AVUTE VITTIME

Il tempio era abbandonato e chiuso al culto da molti anni, ma era conservato nelle sue mura perché dichiarato monumento nazionale - L'incuria delle autorità competenti ha determinato il sinistro che da tempo si paventava

Monteodorisio, 22 aprile La notte della Resurrezione di Nostro Signore Gesù, alle ore 2, dopo che tutta la popolazione si era ritirata nelle case avendo assistito alla S. Messa, l'antichissima chiesa di S. Francesco, che risale al 1200 è crollata con un fortissimo boato. Quasi per miracolo non ci sono state vittime, ma solo danni ad un fabbricato adiacente.

La chiesa era abbandonata e chiusa al culto da moltissimi anni, ma conservata nelle sue mura perché dichiarata monumento nazionale. Da molto tempo però le autorità comunali, riscontrando numerose crepe abbastanza pericolose in quasi tutta la parte rimasta, che ogni giorno di più si ingrandivano per mancanza di manutenzione, mancanza del tetto e per l'opera deleteria del tempo, avevano fatto presente alle autorità competenti le ragioni su dette affinché avvenisse l'abbattimento completo della Chiesa.

Nonostante l'inizio di tale pratica risalisse da molto tempo e dopo un numeroso carteggio fra il Comune, la Prefettura, Sopra-intendenza ai Monumenti e Gallerie de L'Aquila e la Curia arcivescovile uff. amm. diocesano di Chieti. non è stata mai presa una fattiva decisione per ragioni burocratiche. Ancora oggi che il tempo ha dato ragione all'autorità comunale, non si sa a chi addossare la responsabilità del crollo e dei danni.



E' ancora pericolante la parte posteriore sinistra tanto che alcune famiglie che abitano di fronte hanno dovuto sgomberare; pertanto con molta comprensione il Comune ha preso l'iniziativa di demolire il restante muro e forse tutto il resto con una spesa molto rilevante nonostante che la cassa comunale sia in forte deficit; per tale atto di piena responsabilità e di buon senso vada un plauso alle autorità comunali con la speranza che l'Autorità competente e responsabile si faccia viva al più presto per una sana e completa sistemazione della vecchia chiesa da finire da abbattere e della immensa piazza che rimarrà.



La chiesa di san Francesco d'Assisi in Monteodorisio

 


in«La rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti di Teramo», Teramo, fascicolo V, maggio 1895, anno X, Tipografia del Corriere Abruzzese, 1895, pp. 235-236.

Trattasi di un tempio d'indiscutibile antichità, rimarchevole per lo stile ogivale che mostrasi più accentuato nella porta maggiore, nel sovrastante rosone e nella volta dell'Abside, per gli altari che vi si ammirano, egregiamente intagliati in legno dorato, e pei dipinti murali che potrebbero interessare la Storia dell'Arte si giungesse a rimuovere abilmente la calcina che li ricopre.

Ma poiché pel tempo devastatore ed incuria della manutenzione lo edificio minaccia rovina, è uopo prendere un provvedimento per la conservazione di esso.

Questo, in sunto, fu il mio rapporto del 5 giugno 1885, dove ampliamente ne feci la descrizione alle autorità superiori.

Nel gabinetto archeologico di Vasto, ricco di preziosi ricordi della storia nostra, molti ed importanti manoscritti vi si conservano, Si rinvengono ricordi e documenti sulle antichità del vicino comune di Monteodorisio, che tanta parte ebbe nei fasti di questa regione, per essere stato la sede di un importante contado, avente sotto di se molti comuni.

Ivi nel medio-evo e nei tempi posteriori si svolsero fatti che in gran parte si potrebbero raccogliere a corredo delle patrie istorie.

È là che s'erge ancora una parte del suntuoso castello con le sue torri maestose dominanti l'ubertosa a ridente vallata del fiume Sinello. Ivi sono i ruderi di mura e controforti che ne attestano l'antica importanza!...

Quivi forse, in epoca a noi ignota, si contrastavano con lotte indomabili il diritto della forza contro quello della libertà!

Ed ora nulla di più!..Il tempo divoratore, l'incuria e l'ignavia di versi secoli hanno distrutto tanti ricordi... tanta grandezza!

La struttura del tempio che descriviamo rimonta al decimoterzo secolo, unitamente a quella dell'annesso convento, del quale non restano che pochi ruderi.

La sua prospettiva, come si è detto, di stile ogivale, conserva ancora pregevole portone d'ingresso ed il rosone, ornati con pietre lavorate a fogliami, incisioni ed intagli rilevati.

La cornice della porta si conserva in mediocre stato ancora, non così il rosone, del tutto deperito, non restandovi di rimarchevole che la sola cornice.

L'interno della chiesa offre uno spettacolo desolante!... Il tetto pressocché smantellato e quel poco che vi resta minaccia imminente rovina. Le pareti, che un tempo erano decorate di pregevoli affreschi, ora sono ricoperti da ruvido intonaco, cui l'inesorabilità del tempo ha staccato dal muro travolgendo con se quei pregevoli lavori, che forse i più rinomati artisti del tempo - di questa terra feconda di genii in ogni epoca - vi avevano infusa la loro attività. L'Abside o coro, conserva ancora le tracce della sua stupenda struttura. È rimarchevole per la sua volta gotica, con armatura di pietre da taglio che ne sostiene la crociera. Dai poche avanzi - che ancora si conservano - ma pochi in vero, si argomenta che la chiesa era fornita di pregevoli decorazioni in legno istoriato e dorato, avanzi che oggi offrono l'ingrato spettacolo di vederli sparse in frantumi e scrostate in tutta la chiesa sfidandole intemperie ed il tempo e più ancora l'ignavia di chi era preposto a conservarle!

Qua e là qualche pezzo di colonna di granito egizio che ricorda la grandezza del tempio!... Il resto tutto è distrutto... Non una lapide, una memoria per tramandare ai posteri almeno la tradizione di tanta grandezza!

E pure se la fatale procedura burocratica avesse permesso sin dal 1885 la consegna di questo edifizio al Ministero della Pubblica Istruzione, qualche ricordo di più si conserverebbe! Ora il Ministero che lo riceve per conservarlo allo stato di rudere!

Fatale burocrazia!... Un decennio ancora ed anche il rudere sarebbe stato distrutto!

Convento dei Padri Conventuali di san Francesco

 



Convento di san Francesco d'Assisi. Chiesa con torre campanaria, "squadrata mole laterizia ancora perfettamente restaurabile", demolita senza alcuna giustificazione nel 1964.

 

Il convento dei Frati Minori Conventuali di Monteodorisio, fondato nel 1341[1], apparteneva, come quello di San Francesco di Vasto, alla Provincia di Sant'Angelo[2], la quale comprendeva l'Abruzzo a sud dei fiume Sangro, il Molise e la Puglia con il Gargano e la Capitanata.

L' insediamento di Monteodorisio conferma la tipica scelta insediativa dei francescani verso gli agglomerati urbani più consistenti. Infatti, questo centro, "[ ...] che tanta parte ebbe nei fasti di questa regione”[3], era, a quei tempi, un importante contado che controllava molti altri Comuni. Monteodorisio risultava una delle prepositure più dotate del Vastese, tant'è vero che le sue decime arrivavano ad un valore di due once nel 1308 e le sue chiese erano pari a dieci nel 1324-1325[4].

La demolizione nel 1964 di questo antico cenobio, per costruirvi, sullo stesso sito, l'edificio comunale, suscitò l'indignazione di molti storici. Lorenzo Bartolini Salimbeni così scrive: "Particolarmente grave è la perdita della chiesa [di San Francesco] di Monteodorisio, della quale fino a pochi decenni fa si conservava l'involucro esterno, squadrata mole laterizia, ancora perfettamente restaurabile [ ... ]".[5]

Certamente, non si può che rimanere attoniti di fronte al triste epilogo che ha portato alla distruzione di questo insigne monumento e, in questa sede, si è preferito far parlare le eloquenti note dell'Antologia francescana.

La chiesa di Monteodorisio, della quale ci sono state tramandate le dimensioni della facciata e delle partiture architettoniche in pietra scolpita, oltre che della pianta, della navata e del coro[6], [ La chiesa era a navata unica, coperta a tetto, con quadrato voltato a crociera cui si accedeva attraverso un arco sestiacuto; misurava m. 8.30 x 24.70 ed altezza, all'imposta delle capriate, di m. 9.30 ca., mantenendo quindi nell'aula il canonico rapporto 1 : 3 fra larghezza e lunghezza] rappresentava la tipica chiesa-fienile dell'Ordine mendicante, dove erano applicate con scrupolo le disposizioni del Capitolo Generale di Narbona del 1260. La navata era ad aula unica, con tetto a capriata, senza transetto, conclusa da un coro con volta a crociera costolonata.

La facciata, sopravvissuta come l'interno alle trasformazioni barocche, aveva la forma a "capanna" con due spioventi: fatto assai strano in una regione, quella abruzzese-molisana, dove a prevalere era invece, il coronamento orizzontale[7]. Nella facciata erano collocati il portale ogivale ed il rosone con timpano poggiante su colonnine sorrette da mensole zoomorfe, riconducibili a quegli artefici della Scuola di Lanciano (sec. XIV) di cui si hanno testimonianze, inoltre che nella città frentana, a Larino, Agnone e Chieti[8].

Oltre alla chiesa, è stata abbattuta la torre campanaria, che si presentava come una robusta costruzione con un apparecchio murario costituito da ricorsi di conci in laterizio e pietra squadrata.

Agli inizi dei Novecento, all'interno della chiesa era ancora possibile vedere, nonostante l'abbandono e l'esposizione alle intemperie, un grande affresco raffigurante San Cristoforo, protettore dei viandanti e dei pellegrini[9], a testimonianza dell'intenso passaggio di "viaggiatori" in cammino lungo le vie di questo centro posto a guardia del fiume Sinello, a ridosso dei tratturi Lanciano-Cupello e L'Aquila-Foggia[10]. Oltre all'affresco, si potevano notare: altri dipinti murali[11], una cappella dedicata al Santissimo Rosario[12] ed un'altra a Sant'Antonio da Padova[13], degli altari egregiamente intagliati in legno dorato[14] ed una colonna di granito egizio che ricorda la grandezza del tempio[15].

Attualmente si conservano, in un deposito comunale, alcune parti dell'antico portale e del rosone, mentre alcune opere d'arte sono sparse tra la chiesa parrocchiale ed il santuario della Madonna delle Grazie.

Il convento, con il chiostro, la cisterna e la porta urbica della città, detta di San Francesco, furono demoliti nell'Ottocento[16].

L'edificio dei Frati Minori Conventuali soppresso nella metà del 1600, conseguentemente all'emanazione della bolla di Papa Innocenzo X, conosce dunque un destino analogo a quello dei conventi di Sant'Elia a Pianisi, Palena e Francavilla al Mare. Similmente a quanto si auspica per questi conventi, anche per quanto riguarda l'insediamento di Monteodorisio si spera in un intervento di recupero archeologico ed architettonico, teso a valorizzare le vestigia dell'importante fabbrica francescana.


 

 

Dentro l'abitato vi era il convento dei Padri Minori Conventuali. Il medesimo era situato in ottima posizione. Si mirano tuttavia i ruderi e le fondamenta del convento e del chiostro, ove esiste tutt'ora la cisterna disseccata. La chiesa ad una nave ben lunga ed a proporzione più alta che larga dimostra la qualità e grandezza del convento, che un dì doveva essere rispettabile. I finestroni a forma alquanto gotica, ma non totale, dimostra la struttura sia il secolo XV al XI.




Interno della chiesa. Abside con volta a crociera costolonata, con arco trionfale a sesto acuto che risente dell'influenza della scuola architettonica cistercense a cui fa riferimento l'architettura francescana dei primi secoli dell'Ordine

 Anche la porta grande della chiesa e ben'intesa con pietre lavorate a fogliami ed incisioni ad intagli rilevati, una con il gran finestrone a rosa. Questa è adornata di colonnette sorgenti dalla periferia d'un piccolo cerchio centrale. Esse sono dieci contornanti questo cerchio, ed ognuna sostenuta nel capitello le basi dei due semicerchi, che fra loro intersecandosi formano un vago intreccio. L'apice di detti semicerchi s'uniscono a toccare l'orlo interno del cornicione circolare tutto maestrevolmente ben intagliato a fogliami e festoni.

Questo vago finestrone e contornato da due altre colonnette laterali sostenute entrambe da due leoncini foggiati su d'un piedistallo. Dal capitello di queste colonne indi sorge come una linea di pietra anche lavorata a fogliami che vanno poi a unirsi al vertice del gran cerchio esterno, ma non toccandolo e nel punto della tangente di tali due linee vi è un capitello di pietra anche lavorata a festoni che sembra voglia sostenere le medesime. Le fabbriche ben sode e gli ornamenti dimostrano il buon gusto e la pietà dei religiosi e del popolo che concorrere vi dovettero.




Portale ogivale in pietra scolpita, opera della scuola di Lanciano del secolo XIV

Questo convento riconosce la sua abolizione ( e da qualche terremoto per cui crollato, venne abbandonato dai religiosi e dalla Bolla di Clemente X che soppresse i Conventini non colleggiati, che forse è più probabile per la designazione, poiché passò ad essere quasi un beneficio semplice di Vicaria Economa Curata coadiutrice della Parrocchiale matrice.



Torre campanaria che si presentava come una robusta costruzione con un apparecchio murario costituito da ricorsi di conci in laterizio e pietra squadrata.

Nella chiesa di San Francesco dei Conventuali vi è eretta la congregazione sotto il titolo di San Rocco e Sant'Antonio ed è roboata di Regio Dispenso fino dai tempi del Re Carlo III. I confratelli ed altri fedeli con le elemosine vi eressero il Campanile circa la fine del caduto secolo. L'antico era sito nel lato opposto verso il giardino contiguo alle mura della Chiesa di prospetto ad oriente.

 


 




[1] La notizia è riportata nel Provinciale Ordis Fratrum Minorun redatto da fra Paolino da Venezia e citato da Doroteo Forte in Movimento francescano nel Molise, Campobasso, Biblioteca. San Giovanni dei Gelsi – Tipolitografia Lampo, 1975, p. 24.

[2] Cfr, Egidio Ricotti, La provincia francescana abruzzese di san Bernardino dei Frati Minori Conventuali, Roma, Misscellanea francescana editrice, 1937, p. 185,

[3] Nicola Colonna, Rassegna archeologica. La Chiesa di s. Francesco d’Assisi in Monteodorisio, in «La rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti di Teramo», fascicolo V, maggio 1895, anno X, Teramo, Tipografia del Corriere Abruzzese, 1895, p. 235.

[4] Cfr. Luigi Pellegrini, Insediamenti francescani nell’Italia del Duecento, Roma, Ed. Laurentianum, 1984, p. 258.

[5] Lorenzo Bartolini Salimbeni, Architettura francescana in Abruzzo dal XIII al XVIII secolo, Roma, Edigrafica, 1993, p. 90.

[6] Cfr. Ignazio Carlo Gravini, Storia dell’architettura in Abruzzo, vol. II, Milano-Roma, Bestetti e Tumminelli, s.d. [ma 1927-1927], ristampa: Pescara, Costantini Editore, 1980, p. 397; Ciro Robotti, Monteodorisio. Ambiente, immagini, documenti, Manduria, Capone Editore, 1990, p.51, nota 17.

[7] Lorenzo Bartolini Salimbeni, op. cit., :”[…] A Monteodorisio, forse l’unico vero esempio di tale soluzione”.

[8] Ciro Robotti, op. cit,, pp.49-53.

[9] Raffigurazioni come questa, molto frequenti in passato nei luoghi di transito, ora sono diventate rare e, a titolo di esempio, citiamo il dipinto murale raffigurante “s. Cristoforo” di Andrea De Litio (firmato e datato 1473), collocato all’esterno della Chiesa di Santa Maria Maggiore a Guardiagrele, quelli più antichi (secc. XII-XIII) della chiesa di san Pellegrino a Bominaco e di Santa Maria delle Grotte a Rocchetta al Volturno, quello della chiesa di santa Maria a Visso  del sec. XV, collocato all’interno come a Monteodorisio e per finire quello in avanzato stato di degrado nella facciata della chiesa oggi di sant’Antonio da Padova a Teramo. Cfr anche I.C. Gravini, op. cit., p. 397; C. Robotti op. cit., p.51.

[10] Cfr. Natalino Paone, La transumanza. Immagini di una civiltà, Isernia, Cosmo Iannone, 1987, p. 49; Michele Massone (a cura di), Piano Territoriale Provinciale degli insediamenti Francescani, Provincia di Chieti, Assessorato all’Urbanistica e Pianificazione Territoriale – Lightship, Chieti 1999, Carta tematica realizzata nell’ambito dell’Itinerario francescano in Abruzzo e Molise.

[11] Cfr. N. Colonna, op. cit., pp. 235,236; Enrico Abate, Guida dell’Abruzzo, Roma, a cura del Club Alpino Italiano – Sezione di Roma, 1903, p. 363; C. Robotti, op. cit., p.51 nota 18.

[12] Cfr. Serafino Razzi, Viaggi in Abruzzo (inedito del sec. XVI), a cura di Benedetto Carderi, L’Aquila, L.U. Japadre Editore, 1968, p. 177.

[13] Cfr. C. Robotti, op. cit., p.51 nota 16.

[14] Cfr. N. Colonna, op. cit., pp. 235,236; C. Robotti, op. cit., p.51 nota 18.

[15] Cfr. N. Colonna, op. cit., p. 236.

[16] Cfr. C. Robotti, op. cit., p.50.