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domenica 12 gennaio 2020

I feudi abruzzesi di Sordello da Goito

Sordello da Goito inginocchiato di fronte a Virgilio, illustrazione di Gustave Doré.
Marco Boni, in un ampio studio premesso alla nuova e recente edizione delle poesie di Sordello, pubblicate a Bologna presso la Libreria antiquaria Palmaverde, si indugia sulle ultime vicende della vita del grande trovatore e ripubblica i documenti relativi alle donazioni di feudi abruzzesi, a lui fatte da Carlo I d'Angiò; donazioni che ne fanno inserire il nome, sia pure per poco, nella storia regionale. 

I documenti furono pubblicati per la prima volta da Cesare de Lollis nella sua Vita e poesia di Sordello da Goito (Halle, 1896), ma l'opera del De Lollis è ormai tanto rara che si può dire introvabile; e la ripubblicazione dei documenti stessi col relativo commento, ai fini della storia feudale dei paesi a cui si riferiscono, appare quanto mai opportuna. 

Com'è noto, intimi e vivi furono i rapporti che corsero tra Sordello e Carlo I d'Angiò. Sordello, nato in Italia nel 1200, e, durante la sua vita ospite delle corti di Spagna e Portogallo, fu, per molti anni in Provenza alla corte di Raimondo Berengario IV, ma quando Carlo d'Angiò, nella metà di maggio del 1265, dopo gli accordi col Papa, si imbarcò a Marsiglia per la conquista del regno di Sicilia, egli lo seguì come cortigiano, come fautore, e come amico. Poco incline ai viaggi per mare, lo seguì per via di terra col grosso dell'esercito angioino, che, partito dalla Provenza nell'autunno del 1265, attraverso il colle di Tenda, giunse in Piemonte nel novembre del medesimo anno. II trovatore, ormai vecchio, riponeva il piede sul suolo d'Italia dopo trentacinque anni di assenza, e trovava un paese mutato, ove quelli che aveva conosciuti nella giovinezza, e al cui fianco era vissuto, erano scomparsi. Non sappiamo in quali luoghi si sia recato una volta giunto in Italia, e se abbia partecipato, come vogliono alcuni, alla battaglia di Benevento il 22 febbraio 1266. E' certo che il 22 settembre del medesimo anno si trovava a Novara ove languiva in prigione, non si sa se per qualche scaramuccia, a cui aveva preso parte, se per debiti, o per altro motivo. La notizia si apprende in un breve di Clemente IV a Carlo d'Angiò, breve nel quale il Papa, rimproverando il Re di aver trattato poco generosamente coloro che lo avevano seguito e servito, cita appunto Sordello. L'interessamento del Papa valse ad accelerare la liberazione di Sordello, il quale, ad alleviamento delle sue condizioni, ebbe prima, come si crede, un feudo nel territorio di Cuneo, e poi, dopo la battaglia di Tagliacozzo e il conseguente totale assoggettamento del regno di Sicilia, numerosi feudi in Abruzzo. 

I feudi d'Abruzzo furono il vero premio alla sua fedeltà verso Carlo d'Angiò. Il 5, o, più probabilmente il 12 marzo 1269, re Carlo, considerando, da parte sua, i “grandia, grata et accepta servitia “; che Sordello gli aveva reso e gli avrebbe reso in futuro, concedeva a lui e ai suoi eredi di ambo i sessi, nati e nascituri, i castelli abruzzesi di Monteodorisio, Monte S. Silvestro ( 1 ), Paglieta, Pila ( 2 ), e il casale di Castiglione ( 3 ), feudi, che, complessivamente, avevano una rendita di 157 once d'oro. Nel documento, Sordello è designato con i titoli di miles e dilectus familiaris noster, tra i quali è particolarmente notevole quello di familiaris, che non si soleva concedere se non ai baroni più legati alla corte e a quelli di più alto lignaggio, e che era unito a particolari distinzioni. Il Boni nota che la rendita di 157 once d'oro mostra come la donazione non fosse di poco conto se si pensa che a Bertran de Baus, appartenente a una delle più illustri casate della Provenza, Carlo donava in quello stesso anno e sempre in Abruzzo, vari feudi, come Archí, S. Valentino, Filetto, Miglianico, Corbara, ecc., per una rendita di 230 once d' oro, e che per ogni 20 once d'oro di rendita il feudatario doveva fornire al re, in caso di guerra, un cavaliere armato ed equipaggiato. Ma, verso la fine di giugno del medesimo anno, essendosi decisa la concessione di Chieti a Rodolfo di Courtenay, Sordello, evidentemente, per compiacere al sovrano e a Rodolfo, rassegnò alla R. Curia i castelli di Monte S. Silvestro, Paglieta e Pila, che vennero aggregati alla contea di Chieti, e ne ricevette in cambio, con un decreto del 30 giugno, il castello di Palena, anch'esso in Abruzzo, con tutte le sue pertinenze. Nell'atto, era anche confermato al trovatore la donazione in feudo vitalizio dei castelli di Civitaquana e di Ginestra (4), donazione avvenuta con atto anteriore di cui non si conosce il documento. Sordello, in tal modo, rimaneva in possesso dei castelli di Monteodorisio, del casale di Castiglione, e di Palena a titolo di feudi trasmissibili agli eredi, e dei castelli di Civitaquana e di Ginestra a titolo vitalizio: nel complesso, un insieme di feudi, che rappresentavano una rendita di 200 once d'oro. 

Si ignora se i feudi furono concessi in base a un criterio di scelta sia da parte della Corte angioina che del Poeta, ma uno sguardo anche sommario al loro aspetto fisico ci fa supporre che nella concessione un esame particolare de' luoghi non fu estraneo, e che, anzi, per essa, si tese a individuare, fin dove era possibile, alcune fra le località abruzzesi più belle e favorite dalla natura : Monteodorisio, il casale di Castiglione e Paglieta, in zone amenissime di colli e piccole valli in prossimità del mare; Pila, oggi Giuliopoli, l'angolo più riposto, più verde e silente della Valle del Sangro; e Palena, di fronte alla Majella, in una conca montana fresca di boschi e di acque, risonante di mulini e di gualcherie, con un castello, che guarda da vicino le sue grandi montagne, mentre scopre di lontano, verso oriente, una zona di mare, che, ne' giorni di sereno, si colora del più vivo turchino. 

Ma di tali deliberazioni non sembra che sia rimasto subito soddisfatto il poeta, il quale doveva trovarsi in strettezze tali da non potere attendere oltre i frutti de' suoi feudi, che, certamente, sarebbero tardati a pervenirgli. E in una cobla o cobbola, composta probabilmente dopo il giugno del 1269, egli, lamentandosi, si dice infermo e povero, trattato male dal Re, privo di conforti : 



“ Toz hom me van disen en esta maladia 

qe, s'ieu mi conortes, qe gran ben me faria ; 

ben sai q'il deison ver ; mas com far lo porria 

hom q'es paubre d'aver et es malatz tot dia 

et es mal de signor e d'amor e d'amia? 

Fus qi m'o ensignes, ben me conortaria ". 


(Tutti mi vanno dicendo in questa malattia che se io mi confortassi mi farebbe gran bene. Ben so che essi dicono il vero, ma come potrebbe far ciò un uomo che è povero d'averi ed è sempre malato, e sta male in fatto di signore, d'amore e d'amica? Se vi fosse chi m'insegnasse ciò, ben mi conforterei ). 

Questo scrive, forse ingiustamente, Sordello, e il Re troviero, facendo da trovatore, gli risponde : 





“ Sordels diz mal de mi, e far no lo 'm deuria, 

q'ieu t 'ai tengut e tenh car e onrat toto dia : 

donei li fol, molin e autra manentia, 

e donei li mollier aital com el volia ; 

mais fols es e ennoios, e es plens de follia ; 

qu'il dones un contat, grat no li 'n sentiria “. 

“ Sordello dice male di me, e non dovrebbe farmi questo, perché l'ho sempre e lo tengo caro e onorato : gli ho dato gualchiere, mulini e altre possessioni, e gli ho dato moglie tale quale la voleva. Ma egli è matto e noioso, ed è pieno di follia : se uno gli donasse una contea, non glie ne serberebbe gratitudine “.

Nelle gualchiere e nei mulini della risposta del Re è evidente il ricordo di Palena, ove 1'arte della lana e 1'esercizio dei mulini sono stati vivi sino alla seconda metà del secolo passato.
Dopo le donazioni, Sordello non dovè vivere a lungo. Appena due mesi dopo, il 30 agosto 1269, i suoi feudi venivano assegnati con la medesima dichiarazione di valore, cioè di 200 once d'oro, a Bonifazio di Galibert, un cavaliere provenzale, che aveva fatto parte anch'egli della corte di Carlo d'Angiò in Provenza, e che poi, come Sordello, aveva seguito Carlo in Italia. 

Ignote sono le cause della morte del poeta, come ignoto n'è il luogo. Alcuni hanno supposto ch'egli sia perito di morte violenta, e che, in base a tale notizia, Dante ne abbia posta l'anima nell'antipurgatorio, ma la supposizione non regge all'esame della critica storica, e così la fine di Sordello rimane involta nel mistero. Piace, per altro, a noi, pensarlo morto placidamente nel regno di Napoli, non lontano dai suoi feudi d'Abruzzo, che forse speravano allietarsi della sua paterna bontà e della sua gentilezza. 

Francesco Verlengia 

(1) Monte S. Silvestro. Il feudo di Monte S. Silvestro, da non confondersi con Villa S. Silvestro presso Pescara, confinava con quelli di Paglieta e di Castel Giannazzo; e Castel Giannazzo, come mi fa conoscere 1'amico Domenico Priori, noto ed esimio studioso di cose patrie, era ubicato a sinistra dell'Osento nelle vicinanze di Torino di Sangro, fra Casalbordino e Atessa. La notizia più antica che si ha di esso “ Mons. Sancti Silvestri” è del 1176, anno in cui Alessandro III lo confermò a Odorisio, abate di S. Giovanni in Venere. Le notizie più recenti, dopo quelle del periodo di Carlo I d'Angiò, sono del 1321 quando il principe Carlo figlio di re Roberto d'Angiò, « ad istanza della comunità di Lanciano dal Giustiziero di Apruzzo citra fece decidere la controversia de' confini de' castelli di Giannazzo e di Monte S. Silvestro con quello di Paglieta, spettante a Lanciano istesso». 

Evidentemente, il territorio di Monte S. Silvestro deve identificarsi con quello della contrada S. Silvestro, detta anche di Monte Marcone o come nelle vecchie mappe, proprio Monte S. Silvestro, oggi in agro atessano. La contrada, che per secoli ha costituito uno dei feudi di Atessa corre tra Paglieta e Atessa, nelle adiacenze del Sangro. 

(Bellini Notizie storiche del Monastero benedettino di S. Giovanni in Venere. Lanciano 1887; Antinori. Antichità storiche-pratiche, sacre e profane esaminate nella regione de' Frentani,. Tomo I, Napoli, 1790). 

(2) Pila. Il Castello di Pila, o del Pilo, è ricordato per la prima volta nel sec. XII, cioè in periodo normanno, quale feudo di tre militi posseduto da Simone di Sangro ch'era considerato allora come il conte più potente del regno di Sicilia. 

Due e più secoli dopo nel 1392, da Ladislao di Napoli fu concesso, insieme con molte altre terre della media valle del Sangro, alla città di Lanciano. 

In seguito, nel sec. XV, la terra di Pilo fu distrutta e ridotta a feudo rustico; e il feudo donato a Fabrizio Colonna, passò nel 1517 a Guidone Ferramosca, e dal Ferramosca a feudatari diversi, fino a che nel 1637, non fu acquistato da Giulio Caracciolo de' signori della Villa, il quale, nel 1640 ricostituì la terra chiamandola Giuliopoli. 

(Celidonio. La diocesi di Vulva e Sulmona, III p. 65; Antinori Antichità storico-critiche esaminate nella regione de' Frentani, tomo I. Napoli, 1790; Ciarlanti. Memorie historiche del Sannio. Isernia, 1644). 

(3) Casale di Castiglione. Oggi prende tal nome una contrada che corre tra Monteodorisio e Vasto. Tale contrada, anticamente più abitata di quello che non sia oggi, nel 1047, era posseduta come feudo dalla Badia di S. Giovanni in Venere, a cui, appunto in quell'anno, ne confermò il possesso Enrico III. E il possesso stesso fu confermato alla Badia da Innocenzo III nel 1204. 

Nel 1270, dopo la morte di Sordello, sotto Carlo I d'Angió, il feudo fu affittato dalla R. Curia, per due terzi ,a un notar Tommaso de Gipsico. In seguito il casale di Castiglione, insieme con quello di Saliventi, fu aggregato al contado di Monteodorisio, dal quale, in anno imprecisato ricadde alla Corona. Nel 1417, Giovanna II dichiarò di possedere Castiglione e Saliventi, che erano allora “ casali boscosi, già da tempo disabitati, anzi abbandonati dai coloni; dichiarò che il casale di Castiglione confinava con i territori di Vasto e Monteodorisio e che essa lo alienava a favore di Vasto “per ducati seicento d'oro di giusto peso “. Oggi la contrada rientra nel territorio comunale di Vasto. 

(Ughelli. Italia sacra. Tomo VI, pp. 698 e 716; Marchesani. Storia di Vasto. Napoli, 1838).(4) 

Genestra o Genestrula. E' oggi detta così una contrada relativamente vasta del territorio di Civitaquana, con circa 250 abitanti. La prima menzione di essa si fa in un precetto di Desiderio re dei Longobardi, col quale il re, in una conferma di beni numerosissimi, specialmente dei comitati teatino e pinnese, alla badia di Montecassino, ricorda anche la “ecclesia... S. Martini in Genestrula”. Il documento è stato riconosciuto apocrifo, ma, in ogni modo, anche se non appartiene al sec. VIII, non si può negare ad esso una rispettabile antichità. La medesima chiesa di S. Martino in Genestrula viene ricordata in un precetto di Carlo Magno, anch'esso, per altro, considerato apocrifo: e viene ricordata, in fine, in un documento autentico cassinese del secolo XI, il “ Memoratorium abbatis Bertharii”, insieme con altri beni posseduti dalla badia di Montecassino nei comitati di Teate e di Pinna: “ ecclesia s. Martini in Genestrula cum tota curte”. Nel secolo IX, Genestrula era, dunque, una curtis.

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