vocabolario del dialetto storico štrèṷsə
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giovedì 26 ottobre 2017
Ottavio Suriani - Bozzetti del villaggio - 1895 - Grandine
- Sono brutte nuvole quelle; chi sa dove andranno a scagliare la grandine.
- La pioggia, vuoi dire.
- Si vede che le conosci. Ci scommetto quanto credi.
- Va là, mi prendi per un ragazzo.
- O la Bella risposta!...
Dicevano, dandosi aria d'indovini, Santillo e Felice, il figlio di Pippariello, due contadini alti, sbarbati, dai calzoni corti. A crocchio uomini e donne silenziosi, mesti li ascoltavano su la piazzetta a semicerchio, davanti a la chiesa di S. Francesco, guardando il cielo.
Una nuvolaglia biancastra, spinta dal grecale, si avanzava come immensa montagna da la punta de la Penna, fatta buia.
- Non v'è anno che quella contrada la scampi, sembra maledetta.
- Là vi abitano cento diavoli.
- Temo che non sia venuta anche la nostra volta. Guardate, pigliano questa direzione soggiunge Domenica la stregona, una donna robusta, dal petto rigonfio, con i capelli arruffati e la voce grossa, ch'era lo spavento de le campagne e teneva a loro posto i giovani.
- Se avremo quella brutta visita, addio grano, addio uva, addio ulive...
- Tornerà la carestia d'Egitto.
- Felice, taci, non fare il mal’augurio: questa volta la sbaglierai.
- Fosse così !...
Di lontano brontolava il tono: tornavano frettolosi i contadini dai campi, trascinando per la cavezza li asinelli che facevano risonare i ferri sul ciottolato.
Il cielo si era tutto coperto e dava riflessi bianchi, tristi a le case e a le facce pallide dei villani. Il vento a vortici innalzava polvere, carte, pagliuzze; sempre più si avvicinava il tono.
- Santillo, vedi, nel bosco grandina. Avevo ragione?
La folgore guizzò sanguigna tra le nubi.
- Questa volta pur troppo... E ora viene da noi: presto a casa, se non vogliamo la testa rotta.
- A le campane…
Le strade rimasero deserte.
La stregona corse dal sagrestano: Zio Paolo, vuoi rovinarci? Non vedi che tempo? Va, soni a distesa.
- Figlia mia, non posso muovermi, ho la febbre: Vozzo è andato a Cupello.
- Dammi la chiave, salgo io sul campanile.
- Tu... una donna? Mai, porta, scomunica.
- Dammi la chiave, ti dico - gli gridava con le mani alla gola.
Il vecchio vide quelli occhi sgranati, quelli artigli da tigre, n'ebbe paura: È appesa a quel chiodo - soggiunse con dolcezza paterna.
Domenica la prese e si dette a correre: il suo gonfio petto saltava ogni passo. Giunse a la chiesa, aprì la porta e andò difilata al campanile.
Due corde penzolavano da l’alto; le tirò con rabbiosa forza.
Il rombo de le campane empì l'aria, contrastava con il tono. Affacciati da le porte, da le finestre tutti guardavano il cielo, credendo riapparisse azzurro. Il vento era cessato, come una volta di marmo bianco le nuvole abbagliavano.
Le vecchie, battendosi il petto, pregavano davanti a le immagini dei santi.
A un tratto il villaggio s’illuminò sembrava per lo scoppio di una bomba pirotecnica; una luce vivissima fece chiudere li occhi, si udì uno schianto terribile: tremarono le case, le campane dettero un sibilo acuto, lungo, lamentevole e tacquero.
- Santa Barbara !... II fulmine sarà cascato qui vicino - dicevano impaurite le donne, facendosi la croce, i ragazzi piangevano.
Cominciò la grandine fitta, come una sassaiola; rompeva tegole, vetri, risaltando sopra il selciato con colpi secchi.
Dio mio, com’è grossa, siamo rovinati... Vergine aiutaci - E gittavano su la strada, per lo scongiuro catene e bidenti incrociati.
- Quel farabutto di sagrestano e già stanco... e poi lo pagano.
I toni si seguivano a breve distanza e grandinava più forte; le case rintronavano di pianti, grida e bestemmie.
Cominciò di nuovo a spirare il vento: i chicchi duri, bianchi si mutarono in goccioloni cristallini, e l'acqua, scrosciando, correva a torrenti.
Il maestrale, presto spazzò il cielo, apparve più terso l'azzurro. I contadini con li occhi rossi, scapigliati, briachi di dolore andavano ne le loro campagne a vedere i danni. Tutto distrutto: il grano pesto, non una foglia, non una frutta su li alberi, che scheletriti movevano i rami umidi, decorticati.
Una folla di donne, giovani, vecchie, ragazze assalì la casa del sagrestano, che se ne stava, accanto al fuoco sonnacchiando: Brigante, ladro, mangia a ufo... perché hai cessato di sonare ? ti dolevano le mani ? sei buono solo ad andare questuando con la bisaccia per le case e per le aie. Ti becchi i denari senza, far nulla... Tutta su te si doveva scagliare la grandine.
Il povero vecchio, parandosi con il bastone, gridava: Per carità, lasciatemi... che volete?
Non ne so niente, è salita Domenica sul campanile.
- La stregona? no, è, una scusa per allontanarci, non è vero.
- Proprio lei è venuta a prendere la chiave... andate a vedere.
- Andiamo, andiamo, ma se ci burli guai a te... o ci penserà il sindaco, o ci faremo giustizia con le nostre mani stesse.
E quella folla di donne inviperite lasciò in pace, Paoluccio e si mosse verso la chiesa.
La porta, era aperta, entrarono: si sentiva un acre odore di zolfo.
- Domenica,... stregona - nessuno rispose. Che bugiardo, e noi l’abbiamo bevuta... Non fosse, fuggita spaventata?
È coraggiosa più di un uomo... andiamo a vedere ne la torre, - dissero le più audaci - stesse lì zitta per corbellarci.
- Sì, sì andiamo.
Passarono la soglia del piccolo uscio, che dava nel campanile: un grido di terrore. La stregona era distesa per terra livida, con la faccia irriconoscibile, la veste bruciata, stringendo tra le mani due pezzi di fune avvampata, in una contrazione spaventevole.
Le donne inorridite fuggirono.
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