vocabolario del dialetto storico štrèṷsə

domenica 18 settembre 2011

La vendemmia tradizionale



Tra l'ultima decade di settembre e la prima di ottobre, si ripete nelle varie e ridenti colline d'Abruzzo la sagra dell'uva.
È bella la mietitura; è più bella la trebbiatura; ma quanto è più allegra la vendemmia!
Seguire da vicino i mietitori che, sotto i dardi del sole di giugno, stringono in mannelli, con le dita inguantate di canne, il grano che reclina sotto il taglio delle falci lucenti; vedere tutto quel mare d'oro ondeggiante raccogliersi in covoni, soppesati con l'occhio, uguali, disposti nello stesso ordine; vedere le spigolatrici e sentirle cantare nelle ore in cui la calura è meno greve, coprendo esse il monotono gridìo delle cicale; ascoltare i motteggi della gente sana e gagliarda e leggere negli occhi di chi ha seminato la gioia del raccogliere: è cosa che commuove, che esalta, che ci fa benedire ogni zolla, che ci fa cantare lode al Creatore.
Trovarsi nei giorni della trebbiatura sull'aia, quando tutto e tutti sono in mo-vimento ancor prima dell'alba quando gli uomini sudano, le donne non stanno ferme un minuto, le macchine cigolano e sbuffano, e i pesanti covoni vengono ingoiati dalla capace bocca della trebbiatrice...; assistere sotto quel sole spietato alla pula che si solleva, alla paglia che fa volume, al grano che esce come una fluida enorme lingua dalla gola della macchina rumorosa per riempire rapidamente sacchi e sacchi in fila...; vedere finalmente i grani d'oro che saranno pane, e costarono tanta fatica umana, trepidazioni del cuore, speranze: è cosa che ci mette addosso una smania di grdare che la vita è bella, di cantare che la vita è buona!
Difatti l'uomo si segna in fronte. In un baleno, in tutta la contrada si
sparge la lieta novella: tanti sacchi di grano ha reso l'aia di Martino, tanti quintali l'aia di Giovanni!
«E il cuor che l'ascolta è felice».
... Ma la vendemmia, la vendemmia di trenta o trentacinque anni fa nella vigna di mio padre...
Nella settimana precedente venivano preparati e rimessi in ordine botti, tini, barili, canestri, cesti, bigonce: la cantina era tutta sossopra.
Al mattino stabilito, all'alba, le donne si davano la voce: Caterinella ! Lucia! Filomena! Giovina!... presto, chè Don Cesare si è già alzato. E Antonio «il Matto» (parlava sempre da solo) caricava l'asino con bigonce e tini.
La piccola carovana era pronta e partiva ai freschi canti delle giovani gole nel fresco mattino. Io avevo una voglia matta di seguirli; ma perché mio padre mi raccomandava di andare solo verso le 9 e perché a quell'età si dorme così bene all'alba, mi riaddormentavo, tanto che la mamma era costretta, più tardi, a chiamarmi diverse volte.
Un pezzo di pane croccante in tasca, e in quattro salti ero già a farmi la croce - sempre con emozione e un vago timore - davanti al camposanto; quattro sgambettate, ed ero avanti al cancello della vigna. Non capisco neppur oggi il gusto che avevo nel sentire il cigolio del lungo catenaccio arrugginito, che aveva bisogno di un'abile manovra per uscire o rientrare negli anelli.
Papà, sono qui!
E via tra quelli che staccavano i bei grappoli d'oro. Che piacere faceva quel tenero schiocco del grappolo staccato al nodino! E che gusto a mangiare il primo grappolo, a bocca piena, senza piluccare!
E che dolci canti uscivano dalle gole delle nostre donne! Un coro finiva e uno cominciava; uno stornello moriva laggiù e un altro rifioriva su altre labbra più vicino. Tutta la campagna, in quelle ottobrate, quando il cielo è più fondo e l'aria più carezzevole, risuonava delle voci che avevano echi di un mistero di cui nessuno mi aveva mai parlato.
Mio padre era felice ed aveva l'occhio
Dappertuuto: alle donne che staccavano e trasportavano l’uva lungo le «rasole» (i viottoli) sino al poggetto della raccolta, agli uomini addetti alla pulitura, alla prima pigiatura, al carico.
Io gli ero intorno rendendomi utile per questo e per quello: ma, l'operazione da me più gradita era la scelta dei grappoli da conservare per l'inverno.
Erano i grappoli migliori : i più maturi, e i più sani, con i racimoli e gli acini meno stretti, che venivano conservati sino a Pasqua.
Giornate belle erano pur quelle in cui bisognava mettere l'uva in gabbiette, che venivano a ritirare i compratori di Vasto per spedirle in Germania. Un viavai e un affaccendarsi allegro e rumoroso che mi davano l'ebbrezza.
E non meno belli erano i giorni che seguivano della pigiatura e del torchio. Mosto dappertutto e odor di fermentato. Grandi caldaie per il mosto che bolliva al l'aperto.
Poi tutto veniva versato in botti e botticelle, o in bottiglioni di vetro. In questi
ultimi si attaccavano i cartellini: «moscato nero» «moscato bianco» «frag¬la» con l'indicazione pure dell'anno. Poi ancora qualche grido di gioia, nella ri¬cerca di sporadici racimoli lasciati appesi alle viti, sfuggiti alla vista delle vendemmiatrici.
Allora i pampini ingiallivano e i tralci cadevano in disordine...
Bacco cominciava a fiutare in cantina.

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